LAMEZIA TERME Bartolomeo Arena, 45 anni, collaboratore di giustizia legato alle cosche di Vibo Valentia, è convinto che Filippo Gangitano, picciotto delle cosche dei Lo Bianco-Barba, sia stato ucciso dalla sua stessa consorteria. Il corpo del giovane, scomparso a gennaio del 2002, non è mai stato ritrovato. «So che venne ucciso dai suoi stessi parenti. A sparargli fu Francesco Scrugli e l’omicidio fu ordinato da Andrea Mantella», fa mettere nero su bianco Bartolomeo Arena nel corso di un interrogatorio.
Secondo Bartolomeo Arena Filippo Gangitano venne ucciso perché negli ambienti criminali si era sparsa la voce che il ragazzo volesse parlare. «Io ero agli arresti domiciliari nel 1999 e Gangitano era uscito dal carcere perché era stato condannato in via definitiva ed aveva avuto un permesso di due giorni per buona condotta: venne a trovarmi e mi disse che gli zingari gli volevano molto bene in carcere. Abbiamo anche discusso sulle sue condizioni dal punto di vista economico e in quel momento mi disse che non se la passava bene. Filippo, mi disse – quando fosse uscito dal carcere – se non lo avessero aiutato, se la sarebbe cantata. Io gli dissi di non dirlo neanche per scherzo. So comunque che questa voce è circolata nell’ambiente criminale. Era una parola che aveva cavalcato molto gli ambienti criminali e anche se lo aveva detto per scherzo molti temevano che fosse vero. Quelli che lo temevano di erano Carmelo Lo Bianco “Piccini” e Andrea Mantella».
Bartolomeo Arena non abbraccia la versione del collaboratore di giustizia Andrea Mantella, cugino di Gangitano, secondo il quale i vertici della cosca gli avrebbero detto che Gangitano andava fatto fuori perché era gay. «Mi dissero – racconta Mantella – che queste cose “non devono esistere”, che “noi dobbiamo dare conto a San Luca” e non ci potevamo permettere di avere o di aver avuto un gay nella cosca». Mantella racconta anche di avere cercato, in un primo momento di mediare con i capi e di limitarsi a far cacciare Gangitano ma la sua proposta venne bocciata. Secondo Arena: «Io Filippo lo conoscevo da una vita e posso dire che al massimo era bisessuale, anche se ho letto che l’omicidio è stato collegato alla sua omosessualità. Al riguardo, posso riferire che l’ho accompagnato personalmente a diversi incontri con delle donne».
«Come si svolse l’omicidio me lo disse Francesco Antonio Prdea che ne era a conoscenza perché faceva già parte del gruppo Mantella. Mi raccontò che era venuto a sapere che lo mandarono a chiamare e che Filippo salì con il fratello di Andrea Mantella. Nazareno Mantella che lo accompagnò ad incontrare nella stalla gli stessi Andrea Mantella e Francesco Scrugli: Scrugli gli sparò e poi il corpo venne cementato sotto la stalla perché Andrea Mantella stava facendo dei lavori per realizzare la masseria e so che gli escavatoti di Salvatore Evalto, genero del boss Carmelo Lo Bianco “Piccini”’, cementarono i locali. Il fatto che il picciotto doveva essere ucciso e che poi il corpo venne cementificato l’ho saputo anche prima del racconto di Francesco Antonio Pardea perché era notorio nell’ambiente criminale».
In quel periodo, ricorda Bartolomeo Arena, Andrea Mantella si trovava ricoverato nell’ospedale di Vibo Valentia per una finta caduta da cavallo che gli avrebbe poi evitato il carcere. «Fu inscenata una finta operazione: come se Andrea fosse entrato in sala operatoria e fosse uscito come se gli avessero messo i punti, come se si fosse rotto la tibia a seguito della caduta dal cavallo. In realtà era tutto finto».
In quella occasione «Mantella disse a mio cugino Giuseppe Pugliese Carchedi che voleva eliminare il picciotto Gangiano e gli chiese se gli faceva questo favore. Venne mio cugino da me e mi disse: “Andiamo al Carmine – lo zona dove abitava il picciotto – lo “taliamo” e gli spariamo due botte?». Gli risposi di no perché lo conoscevo da una vita e non me la sentivo”, racconta Bartolomeo Arena.
«Nei giorni precedenti avevo visto Filippo salire sulla Seat Ibiza di Nazareno Mantella. L’ho visto io personalmente salire più volte su quella macchina in quel periodo e fu da lì che – associando questo fatto alla richiesta che mi aveva fatto mio cugino Giuseppe Pugliese Carchedi – capì che a breve sarebbe stato ucciso ed in effetti così avvenne». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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