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la conferenza stampa

«Pagano tutti, un’offerta al Santo». Bombardieri: «Rete “antiracket” non è uno stigma»

Il procuratore di Reggio: «Cosche controllano l’economia del territorio». Paci: «Gioia Tauro soggiace alla morsa dei Piromalli»

Pubblicato il: 13/07/2021 – 13:22
di Francesco Donnici
«Pagano tutti, un’offerta al Santo». Bombardieri: «Rete “antiracket” non è uno stigma»

REGGIO CALABRIA «Ci sono lati che non si capiscono, vanno interpretati». A parlare sono alcuni imprenditori della Piana di Gioia Tauro. Il tema è quello dei rapporti interni alle cosche che negli anni hanno imposto «una signoria di fatto» su quel territorio. «Gli equilibri criminali sono dinamici, anche nell’ambito delle stesse “famiglie”, e risentono di una serie di fattori, anche generazionali» dice il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri.
Il riferimento è ai rapporti tra i Piromalli «a cui continua a spettare il ruolo principale nella gestione degli affari in quel territorio» e i Molè. Ma anche ai rapporti interni alla stessa “cosca anziana” della Piana, divisa tra il blocco facente capo ai fratelli Copelli (in particolare a Salvatore, nipote di Pino Piromalli dello “Facciazza”, recentemente tornato in libertà) e quello di Girolamo “Mommino” Piromalli.
Ci sono anche i loro nomi tra quelli degli arrestati nell’ambito dell’inchiesta “Geolja”, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria, che ha portato, nella mattinata di questo 13 luglio, all’applicazione di 12 misure cautelari (10 in carcere e 2 ai domiciliari, di cui una eseguita sul territorio milanese).
Al centro dell’inchiesta, evidenzia nell’ambito della conferenza stampa condotta da remoto il colonnello dell’Arma dei carabinieri Marco Guerrini, c’è «il condizionamento delle attività commerciali della zona di Gioia Tauro-Rosarno». Non si tratta di “semplici estorsioni”, ma di una morsa operata dalle cosche sulla libertà economica della zona. Rimarca il procuratore capo: «C’era l’imposizione degli orari, dei giorni festivi, dei prezzi da applicare ai prodotti. In generale, erano le cosche a dettare le strategie commerciali da intraprendere».

L’indagine partita dal danneggiamento del panificio “L’arte del pane”

Le ipotesi di reato contestate vanno dall’associazione di stampo mafioso fino a estorsione aggravata dal metodo mafioso, illecita concorrenza, trasferimento fraudolento di valori. Una fitta rete di condotte e un modus operandi consolidato che hanno portato il gip Valerio Trovato a sottoscrivere la richiesta della Dda di Reggio Calabria nei confronti di una serie di soggetti tra cui – oltre ai sopracitati “Mommino” Piromalli e Salvatore Copelli – Francesco Copelli, Domenico Copelli, Antonio Gerace, Domenico Ragno, Domenico La Rosa, Vincenzo La Rosa, Antonino Plateroti e Rocco Molé. Gli indagati sono in tutto 21.
L’attività di indagine dura all’incirca due anni e va dall’agosto del 2018 fino al 2020. L’impulso è un «episodio violento» avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 agosto di tre anni fa: l’incendio dell’attività commerciale “L’arte del pane” a Gioia Tauro di proprietà dei fratelli D’Agostino, originari di Rosarno.
«Da lì – dice il procuratore Bombardieri – l’indagine si sviluppa anche grazie all’apporto delle dichiarazioni di alcuni collaboratori che contribuiscono a fornire al gip lo spaccato delinquenziale di quel territorio». Il riferimento ai «lati che non si capiscono» si traduce nell’esistenza di «più gruppi criminali che chiedono il pizzo nello stesso territorio». Ma ciò che più pesa è «la consapevolezza degli imprenditori che per avviare un esercizio commerciale occorra la così detta  “messa a posto”».
Una necessità che spinge le vittime ad adoperarsi per «normalizzare la situazione» chiedendo una «mediazione al fine di ottenere una garanzia finalizzata a riaprire l’esercizio commerciale» ad alcuni referenti di ‘ndrangheta del loro territorio di origine.
«Dopo aver subito un danno per oltre 100mila euro, i titolari si preoccupano di scoprire il mandante attraverso altri esponenti della criminalità organizzata». Da qui scoprono che “Turi” Copelli lamentava «l’apertura di un panificio senza la “messa a posto”» per di più in prossimità di un’altra attività. Circostanza che dovevano essere note agli imprenditori «che dovevano preavvisare le cosche». A quel punto, «i gestori dicono che c’era stato un contatto con il loro referente delle cosche rosarnesi che però in quel periodo era “sorvegliato speciale” e la restrizione aveva creato un cortocircuito informativo».

«Pagano tutti, un’offerta al Santo»

«Pagano tutti, un’offerta al Santo la fanno tutti quanti! L’offerta al Padre Eterno! Come il film, il professore vesuviano, ogni mese passerà da voi un santo, e ognuno avrà il proprio Santo». Da questa captazione di una conversazione intrattenuta da una delle vittime – che cita il film “Il Camorrista” – appare chiaro che la regola, a Gioia Tauro, è quella di pagare il pizzo.
«Emerge – commenta il procuratore – tutta la difficoltà di fare impresa in questi territori con la consapevolezza di dover sottostare a dinamiche di regolamentazione alla propria attività commerciale al fine di non creare pregiudizi a un altro esercizio commerciale concorrente (quello di Antonio Gerace, ndr) di imprenditori vicini alle cosche». Ed appare chiaro che l’imprenditore debba muoversi in forma preventiva, quasi ad essere consapevole “a priori” che per fare impresa nella Piana sia necessario passare dal placet delle cosche: «È l’’imprenditore che si deve preoccupare di mettersi a posto prima di avviare l’iniziativa economica». Le richieste estorsive sono solo la fase ultima di un’attività molto più articolata. «Essendo nati sul territorio conoscono benissimo le dinamiche che si avvicendano in quella zona». dice il capitano della compagnia di Gioia Tauro, Andrea Barbieri. E accade così che vengano esplorate le modalità più fantasiose per corrispondere il “pizzo” da «banconote da 500 euro messe in un panino» alla «corresponsione, agli emissari dei Molè, di offerte per l’acquisto dei “biglietti per la riffa pasquale”».  

Paci: «Gioia Tauro è un territorio che soggiace alla morsa dei Piromalli»

Titolare dell’indagine è il procuratore aggiunto Gaetano Paci, supportato dal sostituto procuratore Giulia Pantano. «Le cosche impongono la loro “signoria” su tutto ciò che riguarda vari segmenti di mercato. Tutto quello attraverso cui lucrare profitti illeciti e controllare il territorio».
“Geolja”, nello specifico, «consente di documentare il reticolo associativo che non svela nulla di nuovo» riprendendo molto da storici processi e inchieste contro gli stessi protagonisti, come “Porto” o “Provvidenza” attraverso cui era già acclarato un dato che ritorna ancora oggi: «Gioia Tauro è un territorio che soggiace alla morsa dei Piromalli». Una “signoria” di fatto su cui fonda la loro egemonia territoriale «ancorché, al loro interno, divisi in una sorta di diarchia tra il gruppo facente capo a “Turi” Copelli e quello di “Mommino” Piromalli».

L’iscrizione alla rete antiracket come «stigma»

Le vicende oggetto dell’indagine, sempre secondo il procuratore aggiunto, «offrono molti spunti all’opinione pubblica». Esempio ne è il passaggio in cui le persone offese si preoccupano di giustificare ai referenti delle cosche «che non avevano richiesto alla prefettura l’iscrizione alla rete “antiracket” onde evitare di essere etichettati in quella categoria». Un aspetto, secondo Paci, che dimostra come «la cultura della legalità fa ancora grande fatica ad affermarsi nella provincia. La mera iscrizione a una associazione antiracket viene considerata come uno stigma negativo. Le persone offese, ben consapevoli di questa situazione, spesso ci dicono: “Non ci resta da fare altro che rimanere asserviti a queste logiche o fare le valigie e andarcene”». Un bivio tra la «rassegnazione o la ricerca di interlocutori mafiosi che nonostante i processi e le condanne che vengono rilegittimati rispetto alle istituzioni».
«Passi avanti ne sono stati fatti – sottolinea il procuratore capo Bombardieri – perché sono molti gli imprenditori che in questo ultimo periodo hanno deciso di denunciare scegliendo da che parte stare. Ma bisogna evitare proprio questa strada che fa sentire l’iscrizione all’associazione “antiracket” come qualcosa di negativo». (redazione@corrierecal.it)

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