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Delitto Covato, il pentito: «Come si usa da noi, il corpo si brucia, si rompe e si semina»

La ferocia delle cosche del Vibonese nelle parole di Carlo Vavalà. «Fa da letame alle piante di noce». I resti del giovane mai ritrovati

Pubblicato il: 14/07/2021 – 17:54
di Alessia Truzzolillo
Delitto Covato, il pentito: «Come si usa da noi, il corpo si brucia, si rompe e si semina»

VIBO VALENTIA «Si bruciano e dopo si rompono e si seminano…». È la fine dei morti per lupara bianca secondo la descrizione raggelante di Carlo Vavalà che il 15 novembre 1999 sta seduto davanti a un maresciallo per cercare di ricostruire le dinamiche della scomparsa di Francesco Covato.

«Fa da letame alle piante di noce»

«Fa da letame alle piante di noce». Le prime parole sulla scomparsa di Francesco Covato, giovane meccanico di Porto Salvo, le pronuncia nel 1999 il collaboratore di giustizia Carlo Vavalà, in passato appartenente al locale di ‘ndrangheta di Cessaniti. Il corpo di Covato non è mai stato ritrovato e il maresciallo che interroga il pentito insiste nel cercare di capire dove possa essere stato seppellito il giovane. Insomma, cosa si intende che «fa da letame alle piante di noce»? È stato seppellito in un noceto? «Seppellito – dice Vavalà –, lui mi ha detto che l’ho messo per “fumeri e nucara”, ora se intende d’averlo seppellito, se intende a suo modo insomma, come si usa da noi, insomma si bruciano, e dopo si rompono e si seminano…». “Lui”, secondo il pentito, è Nazzareno Colace che avrebbe raccontato in prima persona l’omicidio a Vavalà.

La scomparsa fotocopia del fratello di Covato 5 anni dopo

L’agguato che costò la vita a Francesco Covato, il 23 gennaio del 1990, secondo la ricostruzione della Dda di Catanzaro e le indagini dei carabinieri del Comando provinciale di Vibo Valentia, è stato commesso da Nazzareno Colace, 57 anni, in veste di promotore, ideatore e co-esecutore del delitto e da Domenico Salvatore Polito, 57 anni, co-esecutore dell’omicidio. Il primo è stato tratto in arresto questa mattina. Il secondo resta indagato perché secondo il gip Gabriella Logozzo, non sussistono sufficienti propalazioni per raggiungere un quadro di gravità indiziaria.
La scomparsa di Covato è stata denunciata ai carabinieri di Briatico dal padre della vittima il giorno seguente alla scomparsa del figlio. Pochi giorni dopo, il 28 gennaio 1990, viene ritrovata l’auto della vittima, una Fiat 127 amaranto, nel parcheggio della stazione ferroviaria. Una lupara bianca sulla quale gli investigatori oggi ritengono di avere fatto luce. In questa vicenda resta, però, un altro sepolcro vuoto sul quale fare luce: quello di Massimiliano Covato, fratello di Francesco, scomparso il 23 gennaio 1995, cinque anni esatti dopo. Nessuna traccia del corpo, solo l’auto, una Panda Bianca, trovata nel parcheggio della stazione ferroviaria di Vibo-Pizzo. Una scomparsa che in gergo ‘ndranghetista è praticamente un rituale.

Prima in affari, poi rivali

Nazzareno Colace ha precedenti quale uomo della cosca Tripodi-Mantino, è stato condannato in via definitiva, nel processo Lybra, per il reato di usura in concorso ed è stato coinvolto nell’operazione Costa Pulita. Sul suo cammino Colace incontrerà il giovane Covato e, da quanto racconta il collaboratore Vavalà, i due inizialmente collaboravano sul traffico di sigarette e armi dalla Puglia. Secondo Vavalà, però, il meccanico aveva «compiuto degli atti intimidatori e dei furti, in spregio a qualsivoglia vincolo di soggezione rispetto alla cosca dominante (i Tripodi-Mantino, ndr). In una occasione era stato lo stesso Vavalà ad impegnarsi alla restituzione di una autovettura oggetto di un furto perpetrato da parte della vittima». Secondo il collaboratore però all’inizio Covato non si poteva toccare perché «era nipote di Francesco Mirienzi, affiliato alla cosca Mancuso». Ma il giovane meccanico aveva travalicato le regole comportamentali: il 18 settembre 1987 era stato indagato per avere sparato tre colpi di pistola contro il negozio di moto di Colace, fatto per il quale era stato prosciolto mentre erano stato aperto un procedimento per i due amici che erano con lui.

L’attentato

Ma il fatto più grave avviene il giorno successivo, il 19 settembre 1987, quando Nazzareno Colace e Umberto Artusa vengono investiti da una pioggia di colpi di pistola calibro 7,65. La raffica colpisce le due auto, Colace rischia la vita ma se la cava, mentre Artusa riporta gravi lesioni. Il 22 settembre 1987 Francesco Covato, che risultava irreperibile, si costituisce e viene sottoposto a fermo. In seguito all’arresto e alla scarcerazione, dopo tre anni Covato scompare per lupara bianca. La parentela col sodale dei Mancuso non gli salverà la vita.

«Gli abbiamo cacciato le corna»

«L’interesse da parte del Nazzareno Colace era quello di uccidere un ragazzo che aveva un’autofficina a Briatico unitamente al di lui padre e con il quale aveva avuto un litigio che aveva indotto questo ragazzo ad esplodere diversi colpi d’arma da fuoco all’indirizzo di Nazzareno Colace, il quale era rimasto ferito ma non aveva denunciato l’accaduto», racconta il pentito Rosario Cappello ex esponente di vertice della cosca Giampà che inizialmente era stato coinvolto negli atti preparatori strumentali alla scomparsa della vittima. Dell’episodio parla anche il collaboratore Raffaele Moscato il quale in una occasione aveva visto il padre della vittima aggredire pubblicamente Colace accusandolo di essere l’assassino del figlio. Del fatto riferiscono anche i pentiti Andrea Mantella e Michele Iannello il quale afferma che ad aiutare Colace nell’omicidio fu Domenico Salvatore Polito.
Ma secondo il gip «il narrato del collaboratore non può considerarsi di per sé sufficiente per raggiungere un giudizio di gravità indiziaria a carico dell’indagato». 
Bartolomeo Arena racconta che «i Covato, noti come “i figli di Giovanni” (nome del loro padre) erano attivi nel settore delle auto rubate. il grande, in particolare, era un personaggio di spessore, che aveva sparato all’indirizzo di Colace Nazzareno, colpendolo all’addome. Tutto ciò l’ho saputo (nel 2001) da Tripodi Salvatore, una sera a cena, allorquando egli mi raccontava dei malumori che già c’erano tra il loro gruppo (dei Tripodi) e Nazzareno Colace. Il Tripodi, peraltro, lamentava la scarsa gratitudine del Colace, nonostante il suo gruppo gli avesse “cacciato le corna”. In questo modo il Tripodi mi lasciava intendere che erano stati loro a fare scomparire il covato, dopo quella precedente aggressione commessa da quest’ultimo proprio ai danni del Colace». Nel 1999, sull’omicidio viene sentito anche il collaboratore Gerardo D’Urso il quale racconta che «Nazareno Colace, che gli portava le armi con Rosario Cappello, era affiliato a lui (a Nicola Tripodi, ndr), perché il Colace una volta fu sparato, questo Nazareno Colace, quando io ero fuori prima ancora degli anni ’90. E l’avevano sparato, no? Ed era sparato addosso, e una volta parlò con me e con Nazareno e Pasquale che erano nella masseria è dice che quello che l’ha sparato, l’ha fatto scomparire, l’aveva buttato in un pozzo… proprio a questo qua». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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