REGGIO CALABRIA Nella notte tra il 18 e il 19 agosto 2018 viene dato alle fiamme il panificio “L’Arte del Pane”, nel centro di Gioia Tauro. La prima segnalazione era arrivata dal titolare di un’attività vicina che per la seconda volta, a distanza di pochi giorni, aveva trovato manomesso il proprio impianto di videosorveglianza. Elementi che fanno subito pensare alla matrice dolosa dell’evento, con particolare riguardo a un “modus operandi” già noto in quelle zone.
Nella città di Gioia Tauro operano «i sodalizi mafiosi dei Piromalli e dei Molè» che attraverso questo tipo di attività «dimostrano la loro presenza dominante e capillare sul territorio».
I titolari dell’attività danneggiata e vittime, i fratelli Valentino e Gabriele D’Agostino, originari della vicina Rosarno, interrogati dalle autorità «negano di aver subito richieste estorsive» quasi a voler intendere di non conoscere «il sistema imperante a Gioia Tauro».
Circostanza che verrà smentita dall’attività di intercettazione avviata dagli inquirenti. Scrivono i magistrati della Dda di Reggio Calabria che i titolari del panificio sono perfettamente consapevoli dell’esistenza di un sistema che «prevede la corresponsione da parte dei soggetti che intendono avviare un’attività commerciale di ratei estorsivi in favore delle cosche di zona».
Un’affermazione fondata sul contenuto di un’intercettazione del successivo 11 settembre 2018 dove uno dei titolari dell’attività danneggiata, parlando con la fidanzata, cita i dialoghi de “Il Camorrista”, pellicola che racconta la vita del boss Raffaele Cutolo: «Pagano tutti, un’offerta al Santo la fanno tutti! L’offerta al Padre Eterno!»
Il riferimento, sempre all’interno della conversazione, è accompagnato al racconto delle intimidazioni che avevano portato alla chiusura dell’attività, quindi alla necessità «di ottenere un nuovo nulla osta da referenti mafiosi previa opportuna interlocuzione».
E proprio perché consapevoli di questo sistema, subito dopo aver sporto denuncia, le vittime decidono di rivolgersi «a canali di ‘ndrangheta» per avere chiaro il mandante dell’intimidazione.
L’inchiesta “Geolja”, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria (21 indagati e 12 misure cautelari di cui 10 in carcere) trae impulso da questa vicenda e permette di ricostruire «l’attuale situazione mafiosa esistente nel centro di Gioia Tauro», ma è solo l’ultimo tassello di un mosaico ben più ampio.
Gioia Tauro è terreno dei “Piromalli”. Assunto emerso in “Provvidenza” così come nei tre gradi di giudizio “Porto” dove viene evidenziata una sudditanza di fatto di gran parte della popolazione nei confronti della “cosca anziana”. E non solo per quanto riguarda gli affari legati all’imponente infrastruttura portuale, ma nei settori più svariati, dalla sanità agli appalti fino al commercio di carburanti come ricostruito, solo in quest’ultimo anno, dalle inchieste “Chirone” e “Petrolmafie Spa” (“Andrea Doria”), con riferimento specifico al filone reggino.
Ulteriore fattore, emerso un volta in più nell’inchiesta odierna, è quello attinente ai rapporti tra le consorterie della zona. La travagliata convivenza tra i Piromalli e i Molè è nota. L’apice della tensione era stato toccato dopo la morte di Rocco Molè, secondo alcuni pentiti, proprio per mano dei Piromalli.
Nel tempo, però, la situazione è andata appianandosi fino ad arrivare a quello che la Dda definisce un «patto di non belligeranza» anche per fondare nuovi equilibri «e ribadire il proprio predominio nel settore delle estorsioni».
Nonostante questo, continuano ad esserci tensioni, anche interne alla “famiglia”, come dimostrano di sapere proprio le vittime dell’attentato incendiario dell’agosto 2018. «A Gioia c’è il macello!» diranno in una conversazione del 12 settembre 2018. «Si stanno macellando tra loro? Tra Piromalli e Molè?» chiede uno dei due. La risposta è chiara: «No, no, Piromalli!!! (…) dice che hanno problemi grossi tra loro». Il riferimento è alle due frange interne alla stessa “famiglia”. Da un lato c’è il gruppo diretto da Girolamo Piromalli detto “Mommino” di cui farebbero parte i fratelli Domenico, Vincenzo e Salvatore Girolamo La Rosa e Antonio Plateroti. Dall’altro il gruppo di Salvatore Copelli detto “Turi”, nipote diretto di Pino “Facciazza”, riconosciuto come reggente della cosca nella sentenza “Porto” e di recente tornato in libertà per fine pena dopo 22 anni al 41-bis.
Entrambi i gruppi – alternativi tra loro benché facenti capo alla medesima “famiglia” – sono attivi nel settore delle estorsioni. Quello facente capo a Copelli, in più, «manteneva rapporti con referenti di altre articolazioni territoriali di ‘ndrangheta, quali Giuseppe Pesce e Rocco Giovinazzo, esponenti del clan “Pesce”, cui i fratelli D’Agostino si erano rivolti per trovare un accordo coi “Piromalli-Molè” affinché non subissero atti di danneggiamento ai danni della loro attività commerciale».
Ma la guerra intestina ai “Piromalli” destabilizzava l’ambiente a tal punto che gli stessi fratelli D’Agostino valutano la possibilità di spostarsi a Rosarno: «Che ci stiamo a fare qua? Non c’è posto per noi…».
Di fatti, i fratelli D’Agostino avevano agito preventivamente chiedendo a “Turi” Copelli il permesso di poter aprire la loro attività in quella zona di Gioia Tauro, ma questo li avrebbe «traditi», secondo una prima ricostruzione.
L’intermediazione – tra soggetti solo e soltanto mafiosi, quindi non diretta – doveva essere condotta da «soggetti mafiosi di Rosarno» con specifico riferimento a “compare Rocco”, identificato in Rocco Giovinazzo, uomo dei “Pesce”, «che gli aveva offerto disponibilità a parlare con le “persone giuste”». Al momento dell’apertura del forno, questo non era stato possibile, trovandosi “compare Rocco” sottoposto alla misura della “sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Rosarno”. Era così venuto a crearsi una sorta di deficit informativo. “Turi” Copelli si era quindi mosso per «minacciare in forma implicita» i D’Agostino al momento dell’apertura del forno perché posto sulla stessa strada di quello di Antonio Gerace, suo socio. «Ma che state facendo? – avrebbe detto Copelli ai D’Agostino al momento dell’apertura – mi avete dato un guaio! Là fuori c’è un panificio, io sono socio, qua voi siete venuti avete fatto il panificio?»
La conferma del successivo intervento mediatore da parte dei “Pesce” si avrà da una serie di captazioni del 25 ottobre 2018. Rocco Giovinazzo e uno dei fratelli D’Agostino si recano da Giuseppe Pesce che racconta di aver avuto colloqui sia con esponenti dei Piromalli che dei Molè «ottenendo rassicurazioni sulla mancata paternità» dell’incendio. Sempre in quell’occasione, Giovinazzo riconosce il ruolo verticistico di Salvatore Copelli, col quale si sarebbe rapportato per ottenere l’autorizzazione alla riapertura del forno per conto dei D’Agostino.
Dubbi permangono sulla matrice e sulla mano dietro all’attentato incendiario posto che i D’Agostino non avevano ricevuto un preavviso da parte delle cosche. «Perché in base alla cosa – lamenta Giovinazzo – io qua vengo e ti metto la macchinetta in questa bottiglia e lui lo capisce giusto? E io cerco di darmi da fare, però, “palumbu mutu non poti esseri servutu”». Ed è a quel punto che D’Agostino ricorda la visita di “Turi” Copelli al quale non era arrivata la “’mbasciata” da parte di Giovinazzo, ristretto a Rosarno.
Nonostante le rassicurazioni ricevute, all’inizio di marzo 2019 i D’Agostino subiscono un’ulteriore intimidazione, ma decidono di non denunciare il fatto ritenendo che la matrice potesse essere la stessa del danneggiamento al forno. Per l’effetto decidono di confidare nuovamente nell’intermediazione di Giovinazzo. Seguirà il tentativo di organizzare un incontro, alla presenza di Giuseppe Pesce, dei fratelli D’Agostino con Antonio Gerace e Salvatore Copelli finalizzato a chiarire la loro totale estraneità in relazione all’incendio al forno.
In una conversazione di marzo 2019 emerge addirittura che la situazione era stata mediata grazie ad un accodo tra le parti che prevedeva «la garanzia di un trattamento privilegiato da parte di Copelli che in cambio chiedeva un accordo con il Gerace sui giorni di chiusura settimanale». In sostanza, la richiesta agli imprenditori era quella di far combaciare il giorno di chiusura tra i due forni così da evitare distrazioni di clientela. In cambio, sarebbero potuti «andare non tranquilli, super tranquilli».
Ma quella non è l’unica richiesta che arriverà loro da Copelli. In una successiva intercettazione emerge come gli imprenditori avessero dovuto «accettare l’imposizione del prezzo dei panini, allineandosi – scrive la Dda – alle condizioni praticate dagli altri esercenti gioiesi, in particolar modo al fine di agevolare l’attività di Gerace», nonché aver dovuto coordinarsi, sempre su indicazione di Copelli, per la chiusura feriale. «Le cose non le regalare mi ha detto, la ciambella se io la vendo a un euro, tu un euro!»
Se le vittime non avevano acquisito la certezza che dietro l’incendio del forno ci fosse Salvatore Copelli, altrettanto chiara era maturata in loro la consapevolezza della sua posizione di prestigio all’interno della “famiglia”. Ancor più erano indotte a non contrariarlo. Emblematica in tal senso è un’intercettazione datata 3 aprile 2019 dove emerge che, in seguito all’attentato, Copelli aveva chiesto loro se si fossero iscritti ad un’associazione “antiracket”. «Non è vero niente! – gli avrebbe risposto una delle vittime – Abbiamo fatto la richiesta per l’accesso a un fondo gli ho detto, che sia chiama fondo di solidarietà che è un fondo del Ministero dell’Interno, mi ha detto: quindi non è l’antiracket?». E aggiunge: «Gli ho detto (…) e neanche se vengono a propormelo, neanche mi iscrivo, che non stati neanche (…) neanche si sono interessati di me queste persone».
La riapertura avverrà ad aprile 2019 alla presenza, tra gli altri, di Domenico Copelli, in segno di approvazione da parte della ‘ndrina. I titolari ricordano l’importanza della mediazione dei rosarnesi. Non solo di Giovinazzo ma anche di Giuseppe Pesce: «Perché vedi che lui è stato quello che è andato».
Il cerchio, intorno alle vittime e alla loro «totale sudditanza alla criminalità organizzata» si chiude, secondo gli inquirenti, sulla base di due ulteriori aspetti: l’avvertimento alle cosche che il locale era sotto il monitoraggio video della Pg; la decisione di negare di aver subito pretese estorsive. Ciò, scrive la procura, «a riprova della forza intimidatrice promanante dalle cosche e del clima di omertà derivante». Un muro, se non proprio abbattuto, almeno lesionato dagli arresti di questo 13 luglio. (redazione@corrierecal.it)
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