LAMEZIA TERME Il patto con la sua famiglia era che non doveva diventare «né delinquente, né poliziotto». Per tenerlo fuori da certi ambienti lo mandavano anche dalle suore. Bartolomeo Arena, 44 anni, però non si è tenuto a lungo lontano dai guai. Nipote e figlio di ‘ndranghetisti, Bartolomeo Arena è cresciuto sulla scia di suo nonno, Vincenzo Pugliese Carchedi, uno che a un certo punto si era staccato dalla cosca vibonese dei Pardea e aveva formato una sua articolazione a Vibo Marina. Arena cresce con un forte rancore covato in petto per la scomparsa del padre Antonio Arena avvenuta nel 1985 quando il ragazzo aveva appena 11 anni. «Mio padre e il suo gruppo – racconta durante il processo Rinascita-Scott al pm Antonio De Bernardo – mettevano bombe e chiedevano estorsioni a tutti a Vibo, cosa che dava fastidio ai Mancuso». Oggi Arena è un collaboratore di giustizia ma, racconta, «dai 14 ai 25 anni sono stato una testa calda, è stato per cause diverse dalla mia volontà se non ho commesso un omicidio. Meglio così. Almeno l’anima non me la sono macchiata». Ma il ragazzo non è stato certo uno stinco di santo. Lui stesso racconta che Totò Mazzeo, per conto di Paolino Lo Bianco e di Ferruccio Bevilacqua, gli chiese se voleva accoltellare un direttore di banca «perché era uno meschino». Bartolomeo Arena accettò l’incarico e seguì il direttore di banca per un po’ di tempo per studiarne le abitudini e un giorno, quando l’uomo rientrò a casa, lo spinse nel portone e lo accoltellò più volte alle gambe. «Poi ho scoperto che non era uno meschino ma solo una persona che faceva onestamente il proprio lavoro. È una delle azioni di cui mi pento di più».
«Io oggi preferirei che mio padre fosse vivo e ce ne fossimo scappati», racconta Bartolomeo Arena. Ma le cose sono andate diversamente. Suo padre è stato prelevato e non è più tornato a casa. Arena dice che il fatto che fosse stato Giuseppe Mancuso «lo sapevano un po’ tutti. Mio nonno lo seppe da Giovanni Franzè il quale gli aveva detto che mio padre si era allontanato con Giuseppe Mancuso». In più nei primi anni 2000 Giovanni Franzè raccontò ad Arena che Peppe Mancuso era latitante dai Patania di Stefanaconi e in quella occasione raccontò tutto, ovvero che ad Antonio Arena spararono in testa, «poi il corpo venne adagiato sul fiume Mesima per accelerare la decomposizione. Poi non so se sia stato spostato altrove», dice il collaboratore. «L’unico – racconta Arena – che voleva reagire alla morte di mio padre fu Domenico Piromalli. Ma poi non si fece nulla». Dopo questo fatto fu «scialapopolo per i Mancuso», sostiene Arena. In particolare il campo sarebbe stato libero per Peppe Mancuso, uno che «si era accaparrato mezza provincia di Vibo» e per farlo non aveva esitato nemmeno a far prelevare da Mario Fiorillo dei Piscopisani a Vincenzo Barba. «Gli ha infilato una pistola in bocca e gli ha fatto firmare un assegno da dieci milioni di vecchie lire», dice Arena il quale sostiene che dopo quell’episodio Barba si sia messo da parte. Dopo quel fatto su Vibo restarono Antonio Arena, Domenico Cassarola e «Carmelo Lo Bianco che era compare con Antonio Mancuso».
«Io mi volevo affiliare anche perché avrei potuto sapere qualcosa in più sulla morte di mio padre», dice Arena. L’unico gruppo col quale affiliarsi su Vibo, racconta, erano i Pardea perché «i Lo Bianco erano a zerbino con i Mancuso». Ma l’affiliazione per Bartolomeo Arena non è stata un percorso liscio e lineare. In un primo momento non lo fecero affiliare perché «ero una testa calda» poi fu lui a non volersi più affiliare perché in quel periodo con suo cugino Giuseppe Pugliese Carchedi subivano il fascino di Andrea Mantella, oggi collaboratore di giustizia ma all’epoca uno dei principali esponenti della criminalità vibonese. «Andrea Mantella fu il primo a sconsigliarci affiliazioni e riti che ti mettono il guinzaglio e devi sottostare a questo e a quello», racconta il collaboratore. L’affiliazione avvenne anni dopo, nel mese di dicembre del 2012, «un sabato mattina». Arena riceve la dote di picciotto e camorrista nello stesso giorno. Nella sua copiata c’erano Domenico Camillò, Raffaele Franzè, Antonio Macrì, Raffaele Pardea e un quinto soggetto riservato.(a.truzzolillo@corrierecal.it)
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