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il maxi processo

Rinascita Scott, la situazione incandescente a Vibo e i propositi di vendetta

Il collaboratore Arena racconta le morti scongiurate, la fuga in Brianza con Francesco Antonio Pardea, la decisione di collaborare «per salvare mio figlio»

Pubblicato il: 21/07/2021 – 14:49
di Alessia Truzzolillo
Rinascita Scott, la situazione incandescente a Vibo e i propositi di vendetta

LAMEZIA TERME Non voleva che suo figlio cadesse nello stesso baratro nel quale era caduto lui quando era morto suo padre. Bartolomeo Arena, 44 anni, collaboratore di giustizia a ottobre 2019 ha deciso di collaborare con la giustizia dopo una vita trascorsa tra le cosche vibonesi. Una vita spesa con un unico tarlo: riuscire a vendicare la morte del padre, scomparso nel nulla nel 1985 e per la quale reputa la cosca Mancuso principale responsabile. Ma nel 2019, una serie di vicende lo convincono a mollare la presa su quella vita passata a guardarsi le spalle e nutrire sospetti. «Con i Mancuso non me la potevo prendere perché era come sbattere contro un muro di cemento armato – racconta durante il processo Rinascita Scott rispondendo alle domande del pm Andrea Mancuso –. Potevo uccidere uno o due appartenenti ai Mancuso, e dopo? Rischiavo di essere ucciso anche io e poi magari mio figlio cadeva in quel baratro nel quale ero caduto anche io». La collaborazione diventa l’unica soluzione per salvare suo figlio.

Situazione incandescente

Prima che Bartolomeo Arena si decidesse a collaborare la situazione su Vibo era incandescente. Francesco Antonio Pardea voleva eliminare Rosario Pugliese, detto “Saro Cassarola” perché lo riteneva responsabile della uccisione dello zio omonimo. «Francesco Antonio Pardea ha tentato tante volte di uccidere “Saro Cassarola”, è stato fortunato a non morire». Arena ne è convinto: «Se io non avessi collaborato con la giustizia Rosario Pugliese sarebbe stato ucciso perché ritenuto dai Pardea un personaggio che gli aveva creato disturbo». Senza considerare il fatto che in quel periodo i Pardea miravano a prendere il potere su Vibo, «non ci doveva essere nessuno – dice Arena – loro dovevano avere la supremazia su tutti. Preciso, però, che Francesco Antonio Pardea non era contro i Mancuso». Non solo. Gli omicidi in animo alle cosche vibonesi erano diversi. Domenico Macrì, detto “Mommo” voleva uccidere Paolino Lo Bianco, «glielo diceva in faccia – racconta il collaboratore – e diceva che aveva una pistola al cimitero e alla prima occasione avrebbe ucciso Paolo Lo Bianco». Altro omicidio era quello che Salvatore Morelli voleva compiere nei confronti di Filippo Catania, anche se su quest’ultimo fatto il collaboratore non sa specificare il perché.

La falsa lupara bianca

«A luglio 2019 Francesco Antonio Pardea aveva saputo che c’era un’imminente operazione di polizia su Vibo e temeva che sarebbe stato colpito anche grazie alle rivelazioni di Andrea Mantella – dice Arena –. Mi propose di simulare una sparizione visto che suo zio e mio padre erano stati vittime di lupara bianca, tutti avrebbero pensato che la stessa sorte fosse toccata anche a noi». Così a luglio lasciano la macchina al bivio Angitola e Mario De Rito manda tale Alberto Marchese a prenderli con un’altra auto e ad accompagnarli a Milano. Si recano a Nerviano dove volevano attivare una ‘ndrina dipendente dal locale di Seregno, fare affari con il traffico di droga. Il permesso lo dovevano chiedere a Leonardo Prestia, investito da Vincenzo Gallace di Guardavalle. Non solo. Si mettono anche in contatto con Filippo Grillo, referente per quella zona. Accade, però, che Bartolomeo Arena decide di avvisare di quella falsa scomparsa Antonio Macrì il quale si adirò moltissimo e li avvertì che Domenico Camillò, Domenico Macrì e Michele Pugliese Carchedi stavano per uccidere Paolino Lo Bianco perché lo ritenevano responsabile della scomparsa di Arena e di Pardea. I due, dopo un mese in Lombardia, tornano in Calabria ma decidono di stare un po’ defilati all’interno del gruppo Pardea. «Facevamo traffici per i fatti nostri», spiega Bartolomeo Arena. (a.truzzolillo.corrierecal.it)

I sospetti

Una serie di vicende, però, allontanano sempre di più Arena dai Pardea. “I Pardea erano legati a doppio filo ai Sangregoresi (cosca di San Gregorio D’Ippona che Arena collegava come complici della morte del padre, ndr). Francesco Antonio Pardea, col quale ero legatissimo, portava troppo rispetto ai Sangregoresi e poi si era avvicinato a esponenti dei Mancuso. Io reputavo i Mancuso come una famiglia che mi aveva fatto del male e non volevo fare come coloro che prima subiscono un torto da una cosca e poi diventano compari. Ad un certo punto ho anche pensato che avrei dovuto guardarmi anche dai Pardea perché forse anche loro una regia occulta l’avevano avuta. Io mi sono cresciuto con una famiglia, i Pardea, che ritenevo la mia vera famiglia. Io li aiutavo contro i Cassarola e poi magari loro mi facevano fuori pure a me”.

La sparatoria

“Nel 2017 Mommo Macrì sparò ad un piede a Nazzareno Cassarola. Io ero a casa con la febbre e mi chiesero di avvisare Francesco Antonio Pardea ma io ci riuscì solo a tarda sera”. Nel frattempo il gruppo scopre che Rosario Pugliese cercava Mommo Macrì perché sapeva che aveva la sorveglianza speciale e alle 20 doveva rientrare a casa. Escono per scongiurare guai Bartolomeo Arena, Giuseppe Camillò e Antonio Macrì. Vengono avvistati da Rosario Pugliese che decide di prendersela con loro e dopo averli seguiti con la macchina sparò nella loro direzione. Quando Mommo Macrì lo seppe andò nel quartiere Affaccio di Vibo e cominciò a sparare contro le case dei Cassarola. 
L’episodio rimase impresso nella memoria di Bartolomeo Arena che nell’autunno del 2019 ormai aveva deciso che l’unica soluzione era collaborare con la giustizia.

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