LAMEZIA TERME L’enoturismo può costituire una carta vincente da giocare per rilanciare l’economia locale. Non solo. Può rappresentare la chiave di riscatto vero e concreto per intere zone che diversamente rischiano di sprofondare nella marginalizzazione. Si tratta delle aree interne dove tradizione, cultura, paesaggio e storia si coniugano con la qualità delle produzioni enogastronomiche. Ad iniziare appunto dalla viticoltura. Il patrimonio del comparto d’altronde resta cospicuo: diecimila ettari coltivati a vigneto con una produzione media annua di 368mila ettolitri di vino di cui il 43% rappresentato da Dop e il 34,6% da Igp. Un patrimonio che diviene un tesoro se legato ad una storia millenaria che fonda le sue origini nel periodo precedente alla colonizzazione greca – tanto da essere da loro definita Enotria (terra del vino) – e che per questo occorrerebbe utilizzare al meglio per percorrere con convinzione la strada dell’enoturismo i cui capisaldi sono appunto qualità delle produzioni e ricchezza del contesto paesaggistico e storico del territorio.
La crescita del consenso in Italia verso questo genere di turismo di nicchia è palpabile e registra numeri decisamente incoraggianti. In base all’ultima stima effettuata nel 2019 cioè in fase pre-pandemica – per questo più attendibile – da parte dell’associazione nazionale della “Citta del Vino” si parla di almeno 15 milioni di presenze (tra turisti ed escursionisti) e almeno 2,65 miliardi di euro di fatturato (della complessiva filiera enoturistica). Ma nonostante lo tsunami della pandemia che si è abbattuto sul turismo in generale, l’attenzione per questo genere di viaggio del gusto e della tradizione non sembra essere svanito. Anzi. Ne è convinto assertore Floriano Zambon, presidente dell’associazione nazionale della “Città del Vino” – l’associazione fondata nel 1987 e che istituzionalmente è considerata la fonte più autorevole nel campo dell’analisi del fenomeno enoturistico in Italia – che parla di «opportunità» per l’intero settore dopo lo scatenarsi della pandemia. Occorre solo «saperla cogliere», dice. Anche in Calabria.
Il Covid ha cambiato completamente il modo di fare turismo: maggiore richiesta di sicurezza e luoghi meno affollati. In questo senso l’enoturismo potrebbe trarne beneficio?
«Parlare di “benefici” forse non è la parola più giusta. Piuttosto parlerei di “opportunità”. Quando c’è una crisi, insieme alle difficoltà e ai danni materiali e immateriali che essa può provocare, si prospettano anche delle opportunità, ad esempio: abbiamo tutti imparato ad usare in modo più produttivo la rete internet e le persone, costrette dalle limitazioni ai viaggi, hanno avuto modo di scoprire quanto di bello e buono c’è anche a pochi passi da casa. Il turismo del vino può dunque trarre un insegnamento da questa terribile pandemia: deve saperti organizzare ancor di più e meglio per differenziare la propria capacità di offerta. Oggi sono per lo più gli italiani a muoversi, anche se questa estate ha visto per fortuna aumentare la quota di turisti stranieri, di fatto quasi esclusivamente europei. Il turismo di prossimità ne ha tratto beneficio, in questo senso, e il turismo del vino in questo ambito può giocare un ruolo strategico».
Territori che sono caratterizzati da vaste aree interne praticamente intatte e con un patrimonio vitivinicolo elevato come la Calabria potrebbero trarne opportunità da questo genere di turismo?
«Certamente. I territori interni sono spesso tralasciati dalle abituali scelte di viaggio. Ecco l’opportunità che dicevo. Però è necessario sapersi organizzare. Occorrono alleanze tra i diversi territori, organizzazione, promozione di adeguati pacchetti turistici e un’offerta che metta al centro la scoperta, l’esperienza, la novità di visitare e conoscere luoghi diversi dalle abituali mete. In particolare quelle estive del mare. Occorre maggiore organizzazione e anche infrastrutture adeguate e non mi riferisco solo alla viabilità. Intendo anche la rete internet che deve essere in grado di coprire tutte le aree rurali. Oggi i viaggiatori prima di prenotare un soggiorno esplorano sulla rete i luoghi che andranno a visitare, poi sondano le strutture e i servizi che sono presenti nella zona ed infine scelgono. Chi non è in grado di comunicare tutto questo resta fuori dal mercato. Inoltre è opportuno targettizzare sempre di più l’offerta di viaggio, perché quello che va bene per una famiglia con bambini magari non è lo stesso per giovani coppie o anziani. Insomma fare turismo oggi non può più essere improvvisazione: questo vale anche per il turismo del vino».
La Calabria alla vostra ultima edizione del concorso internazionale ha raggiunto un importante traguardo: dodici medaglie d’oro e una d’argento. Una dimostrazione, l’ennesima, della bontà della produzione. Eppure ancora non riesce ad intercettare il grande pubblico. Cosa manca per trasformare questo bagaglio in occasione di crescita anche del turismo di settore?
«La Calabria del vino è cresciuta molto. La qualità ormai è diffusa ovunque. La risposta a questo quesito in parte è già in quello che è stato affermato prima: l’organizzazione dell’offerta è strategica. Vino, territorio, prodotti tipici, ambiente, cultura, la Calabria ha tutto questo. Forse quello che manca è una maggiore capacità di fare squadra. In questo contesto un ruolo fondamentale devono svolgerlo gli Enti locali, la Regione in primo, coordinando e programmando in stretto rapporto con le aziende e le associazioni dicategoria interessate dalla ristorazione alla filiera ricettiva, oltre naturalmente ai consorzi e ai produttori vitivinicoli».
Il turismo legato ai consumi locali e al corretto utilizzo delle risorse, consente di contribuire significativamente al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile secondo l’Agenda 2030. Ma ancora mancano finanziamenti specifici per il segmento. Quali risposte avete avuto dal Governo?
«Le risposte, più che a noi è doveroso darle al mondo agricolo nel suo insieme. I cospicui finanziamenti che giungeranno nei prossimi anni dall’Europa saranno il vero banco di prova: innovazione, infrastrutture, meno burocrazia, più ambiente e più sostenibilità. La sensibilizzazione intorno ai temi proposti dall’Agenda 2030 è uno degli obiettivi che anche noi, come associazione, ci stiamo ponendo nel rapporto con i nostri Comuni. La salubrità dell’ambiente, la sicurezza alimentare, il riciclo, il recupero e il riuso dei materiali devono diventare un punto di forza nella gestione delle nostre amministrazioni locali. È vero che il tema è globale, ma ognuno deve fare la sua parte. E molti Comuni si stanno impegnando. Favorendo, con il coinvolgimento delle Università e dei centri di ricerca, delle Aziende e di giovani imprese, progetti di economia circolare. Ad esempio con il riuso dei materiali di scarto prodotti in vigna e in cantina: fecce, tralci, vinacce sono scarti che possono essere rimessi in circolo sotto forma di prodotti per la cosmesi o per la nutraceutica. Questo può consentire alle aziende di abbattere i costi di smaltimento e di creare nuove opportunità d’impresa».
In generale cosa dovrebbero fare le istituzioni per garantire una crescita del settore?
«Credo che le istituzioni locali, alcuni sindaci che conosciamo, stiano facendo molto pur nei limiti dei loro poteri e delle loro possibilità. Governo e Regioni, in particolare, hanno in mano gli strumenti, legislativi e di progetto, per mettere i territori nelle condizioni di beneficiare di tali strumenti. Purché vi sia una cabina di regia che coordini e non disperda energie e soprattutto denaro. Il tema della “regia” è emerso con forza proprio dagli operatori del settore che abbiamo intervistato in occasione della redazione del “XVII Rapporto del nostro Osservatorio sul turismo del vino” che abbiamo presentato recentemente. Cento operatori della filiera del vino e dell’enoturismo che in modo quasi unanime hanno richiesto un maggiore e più efficace coordinamento delle politiche di promozione. Turismo, cultura e agricoltura sono tre ambiti che devono dialogare tra loro a Roma nei ministeri, così come nelle Regioni».
Dal vostro osservatorio, le imprese nel tempo si stanno attrezzando per rispondere alle esigenze dei turisti del gusto?
«Direi di sì. Mi sembra anzi doveroso riconoscere alle imprese, alla buona volontà di molti illuminati titolari di aziende vitivinicole di aver a volte anticipato, con le loro iniziative e investimenti, quello che poi sarebbe diventato patrimonio comune. Non tutti hanno lo stesso passo, ovviamente, ma ormai la strada della qualità intesa nel senso più ampio del termine sembra essere stata intrapresa. Qualità del vino, ma anche capacità di fare accoglienza, di diversificare la propria offerta, di fare della propria azienda un polo multifunzionale dove fare il vino è l’attività intorno alla quale ruotano molte altre iniziative ed esperienze. Gli esempi di alcuni grandi nomi del vino sono stati nel corso degli anni da traino per interi territori. E questo è un fatto positivo».
Quale valore aggiunto può offrire la vostra associazione a chi lavora per far crescere l’enoturismo?
«Il nostro valore aggiunte è la “rete”. L’interscambio di esperienze è il nostro punto di forza. Mettiamo insieme e colleghiamo tra loro realtà anche lontane geograficamente, ma accomunate da analoghi problemi, esigenze e ambizioni. Molti dei nostri progetti hanno al centro la possibilità della “trasmissione” delle esperienze tra realtà diverse. Inoltre al centro del nostro agire c’è il tema della gestione del territorio nei suoi molteplici aspetti: ambiente, sostenibilità, cura del paesaggio, salvaguardia dei vigneti storici, delle tipicità materiali e immateriali. Essere “Città del Vino” significa condividere questi valori e quindi le imprese che fanno turismo non possono che trarne vantaggio. L’esempio di questa forte identità è data dal numero sempre più ampio di Comuni che installano ai loro confini i cartelli che indicano l’appartenenza all’Associazione. Come dire, “cari viaggiatori che state entrando in questo territorio sappiate che qui potrete trovare davvero quello che state cercando”: una migliore qualità della vita». (r.desanto@corrierecal.it)
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