LAMEZIA TERME Bisogna pur semplificare, se si vuole capire cosa accade nel gran caos della depurazione in Calabria. Coste da sogno e mare cristallino solcato – troppo spesso – da chiazze verdastre, giallognole, marroni. Specialmente sul Tirreno, che ha una densità abitativa elevata e ha bisogno di un monitoraggio più stretto di impianti e torrenti. Da entrambi arrivano inquinanti e “cibo”, spesso indigesto, per l’ambiente marino.
Il Corriere della Calabria proverà a capire quali siano i problemi principali di un settore molto complesso e governato puntando su annunci roboanti ai quali non corrispondono sforzi adeguati. In alcuni casi, si rischia addirittura di azzerare il lavoro fatto in passato. Accade quando la politica pensa più agli interventi a pioggia che al governo dei fenomeni.
Primo step: cercare di capire cosa accade negli impianti attraverso testimonianze e atti tratti da recenti inchieste giudiziarie. Questione centrale è quella dei costi. L’impianto di depurazione come un sistema che, al termine del suo ciclo, deve espellere i residui, cioè i fanghi che, in una prima fase restano in una vasca, successivamente vengono mineralizzati e poi, previa disidratazione, portati in una discarica autorizzata. Quest’ultimo passaggio ha un costo: si stima in 180 euro a tonnellata se i residui sono trattati in regione, ma il prezzo sale anche a 350 euro se si deve ricorrere a impianti oltre confine. È qui che subentra il primo problema, che è di ordine gestionale. Una fonte che chiede l’anonimato e conosce bene la situazione degli impianti racconta che «i gestori, spesso, chiudono con i Comuni contratti a un prezzo ribassato. Non riescono, di conseguenza, a rientrare nei costi e sono costretti a trattenere quei fanghi nelle vasche di depurazione. Fino a quando? Vedremo». In quel «vedremo» si nascondono i pericoli. «Appena arriva un carico diverso da quello normale – spiega ancora la nostra fonte – l’impianto, come fosse un organismo vivente, “vomita” perché non riesce più a trattenere i fanghi che fuoriescono e vanno nell’effluente (il canale che sgorga dal condotto del depuratore), poi finiscono nel corpo idrico ricettore e infine in mare». È per questo che i primi controlli agli impianti analizzano l’effluente e il carico di fanghi nelle vasche. E non è difficile immaginare che il meccanismo ipotizzato si verifichi sovente in estate, quando la pressione antropica cresce. A volte, però, basta anche una pioggia torrenziale per far esplodere la “macchina” della depurazione e rilasciare carichi in mare. C’è una questione in più. Per via dei lavori in corso in molti impianti, dovuti alla necessità di superare le procedure d’infrazione comunitaria alle quali è sottoposto il sistema in Calabria, alcuni depuratori devono già pensare a soluzioni alternative per adeguare le proprie strutture tecnologiche e continuare, ovviamente, a ripulire le acque reflue. In questo caso trattenere i fanghi potrebbe risultare ancora più rischioso per l’ambiente, perché basta poco per spostare gli equilibri. E “macchiare” le acque.
C’è anche un altro motivo che convince alcuni gestori a lasciare che i fanghi restino in circolo. Estrarli e stoccarli rischia di complicare la situazione in caso di controlli: il residuo trattenuto in deposito va infatti smaltito entro tre mesi se supera i 30 metri cubi, pena il sequestro del depuratore. «Quello mantenuto nelle vasche è più difficile da controllare», spiega il tecnico.
Qualche settimana fa, la Procura di Paola ha acceso i riflettori sulla maladepurazione in un’area dell’Alto Tirreno cosentino. Grazie al lavoro certosino dei carabinieri forestali, l’aspetto dello smaltimento dei fanghi è stato analizzato in profondità. I militari ricordano, negli atti dell’inchiesta (lo abbiamo raccontato qui), che nel servizio del gestore sono inclusi «la raccolta, carico e trasporto dei fanghi residui presso centro autorizzato con oneri di smaltimento a carico della ditta appaltatrice». Bisogna pure che «i fanghi di depurazione, dopo essere stati essiccati, vengano conferiti a ditta autorizzata». A Buonvicino, il titolare della ditta affidataria dell’impianto avrebbe avuto idee diverse sulla questione. E, assieme ai dipendenti, avrebbe prelevato i fanghi di depurazione e li avrebbe smaltiti illecitamente. Dove? «In terreni agricoli nella disponibilità di alcuni suoi dipendenti» oppure in un cassone posizionato «in un altro depuratore comunale» gestito dallo stesso gruppo, «in tal modo – segnalano gli investigatori – non facendosi carico dei costi per lo smaltimento dei fanghi e le rispettive analisi, i cui oneri sono a carico della ditta aggiudicataria».
Le conversazioni captate dai carabinieri forestali sembrano confortare l’ipotesi investigativa. In occasione di un controllo, i militari riscontrano «l’abbandono di circa sette metri cubi di rifiuti costituiti da fanghi di depurazione provenienti dal depuratore comunale di Buonvicino». Scatta, ovviamente, il sequestro. Mentre il gestore del depuratore si agita: «Non fate il nome mio che mi arrestano… l’importante è che non dici che viene da là assolutamente. Non gli parlare di depurazione che ci arrestano, oh».
A San Nicola Arcella, invece, quando un problema tecnico causa la rottura della condotta sottomarina utilizzata per lo scarico, il gestore dell’impianto si muove subito: senza attendere «alcuna autorizzazione», con l’aiuto dei dipendenti ha «rotto un tappo di cemento presente all’interno di un pozzetto chiuso all’interno dell’impianto di depurazione, consentendo lo sversamento del refluo fognario attraverso uno scarico non autorizzato». Solo l’intervento tempestivo degli investigatori ha consentito «di sigillare immediatamente lo scarico non autorizzato e di attivare immediatamente i lavori di riparazione della condotta sottomarina». Una scelta necessaria, visto che «la condotta non autorizzata scaricava in un canale le cui acque sono risultate, già nell’immediatezza dei fatti, moderatamente contaminate». È una vecchia storia: la condotta sottomarina si trova a una profondità insufficiente a garantirne l’integrità in caso di mareggiate. A volte riemerge e scarica liquido che colora l’acqua di sfumature verdastre o nerastre, come testimoniano diversi video realizzati da Italia Nostra (le immagini sotto sono state girate il 4 settembre 2020).
Il “trucco” utilizzato in quel depuratore – secondo le valutazioni che gli inquirenti ricavano dall’ascolto delle intercettazioni – è la diluizione dei fanghi con acqua, aggiunta «manualmente attraverso un tubo di gomma da parte dei dipendenti che, quasi quotidianamente, come documentato dalla visione delle immagini del sistema di videoripresa attivato sull’impianto, procedevano al compimento di tale operazione». Quando, nel maggio 2020, la condotta si rompe, Italia Nostra documenta nuovamente il caso con un video postato sui social.
E le cimici degli investigatori registrano una conversazione molto eloquente tra un tecnico comunale e il titolare dell’impresa che gestisce il depuratore. L’ingegnere dice: «Se non sia mai… se non sia mai un ragazzino si va a bere quell’acqua là». L’imprenditrice replica: «Allora io… io domani faccio una cosa… domani ci metto gli operai tutti e quattro, dalla mattina alla sera, scasso e scarico in canale… perché non possiamo… non sia mai la Madonna… non possiamo rischia’ che quelli non sia mai… si pigliano un’infezione noi siamo fregati… perché è acqua disinfettata sì, però non è che è proprio acqua di depuratore quella». Secondo gli investigatori sarebbe la prova che l’acqua reflua «evidentemente non era conforme ai limiti tabellari imposti dalla normativa vigente» per il «funzionamento irregolare di varie unità dell’impianto di depurazione». È qui che i problemi gestionali finiscono per mescolarsi alla cronaca giudiziaria. Ma la storia della maladepurazione è anche una storia di competenze che si sovrappongono, politiche confuse, interventi necessari cancellati (o “scomparsi”) e finanziamenti di dubbia utilità. Accade quando la politica non sa cosa fare e punta tutto sugli annunci. (1. continua)
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