LAMEZIA TERME Nel cimitero di Vibo può capitare che se un parente lontano, che torna da fuori regione, voglia visitare i propri morti non trovi più nulla. E se ha ricordo di dove fosse posta la cappella di famiglia, è possibile che al posto degli antenati trovi altre persone. Questa non è certo una peculiarità di Vibo, sicuramente il fenomeno investe anche altre città e altri cimiteri. A Vibo, però, oltre alle inchieste condotte dalla Procura locale, ne parlano anche i collaboratori di giustizia. Parole che ritornano nel processo “Rinascita-Scott”, istruito dalla Dda di Catanzaro, che si sta svolgendo nell’aula bunker di Lamezia Terme.
Dopo il racconto di Andrea Mantella – che ha affermato di essere riuscito ad avere una cappella di famiglia nuova di zecca grazie all’esproprio perpetrato da Rosario Pugliese, detto “Saro Cassarola” e a Orazio Lo Bianco – oggi Bartolomeo Arena, detto “Vartolo” ha narrato – rispondendo alle domande del pm Andrea Buzzelli – vicende speculari a quelle di Mantella. Davanti alla foto di Orazio Lo Bianco, detto “U Tugnusu” non ha avuto esitazioni: «Era inserito nel gruppo dei Pugliese Cassarola, hanno un’agenzia di pompe funebri a Vibo. Nel cimitero di Vibo si impossessavano di cappelle dove i parenti erano ormai lontani e con l’aiuto del custode, Saro Francolino, sgombravano i loculi eliminando i resti dei defunti. Poi le restauravano e se le vendevano per nuove. Eseguivano anche lavori delle cappelle, per ammodernarle, per restaurarle. È stata una loro esclusiva fino a un certo punto perché poi Domenico Macrì si mise di traverso e diciamo che il cimitero è passato nelle mani di don Mommo Macrì. Lo so personalmente perché fui io stesso una volta, ad accompagnare Domenico Macrì, insieme a Francesco Antonio Pardea, da un soggetto che faceva molti lavori al cimitero. Macrì gli disse che da quel momento in poi, per qualsiasi lavoro, questo muratore che faceva le cappelle doveva dare conto a lui e doveva dirlo anche a tutti gli altri».
«Il gruppo di Orazio Lo Bianco – afferma Arena – si era molto interessato agli idrocarburi. Infatti una volta che capitammo a San Fili di Melicucco da Michele Oppedisano, lui ci disse che Orazio Lo Bianco era andato a trovarlo per il tramite dei Varone di Maropati, che sono una famiglia di ‘ndrangheta di quella zona, e gli disse che aveva disponibilità di benzina in quantità e chiese se poteva rifornire i distributori di benzina di quella zona. Per quanto abbiamo saputo noi (si riferisce al suo gruppo, i Pardea-Ranisi, ndr) avevano pure un silos dove tenevano questa benzina ma non siamo mai riusciti a sapere dov’era perché Francesco Antonio Pardea lo voleva incendiare».
«Orazio Lo Bianco è molto addentrato nell’ospedale di Vibo – racconta Bartolomeo Arena – perché loro fanno assicurazioni false sui feriti e con i medici compiacenti alterano radiografie e un po’ tutto. Se magari devono dare dei giorni di malattia ne fanno dare di più. Per quanto riguarda l’ortopedia Orazio Lo Bianco era molto collegato con i dottori Catanzariti, Maglia, Soriano. In Neurologia col dottor Franco, col dottor Bardari che era il responsabile delle radiografie. Io conoscono queste circostanze perché prima di loro queste entrature ce le avevamo noi tramite mio zio Domenico Camillò.
Arena racconta che i rapporti con Orazio Lo Bianco non erano sempre buoni, anzi, più volte vi furono screzi, soprattutto con Domenico Macrì. In una occasione venne trovata una macchina rubata, una moto rubata, una pistola e un casco nei pressi della Banca Carime di Vibo. Si è subito pensato che quello potesse essere un tentativo di agguato nei nostri confronti da parte dei Pugliese Cassarola. Francesco Antonio Pardea e Domenico Macrì mi avevano convocato affinché io, con una scusa, facessi salire Orazio Lo Bianco in macchina con me per portarlo da loro. Io mi rifiutai con la scusa che non ci salutavamo più, anche se non era vero, perché loro mi avevano detto che lo volevano torturare per farlo parlare per capire se le rami e le macchine rubate erano riconducibili al suo gruppo. Ma io sapevo che dopo che avrebbero fatto questo lo avrebbero ucciso e non mi prestai a questa cosa. Da quel momento iniziai a non salutarlo davvero per non creare sospetti nel mio gruppo».
Scorrono le fotografie davanti agli occhi di Bartolomeo Arena. riconosce Leoluca Lo Bianco, alias “Il Rozzo”, zio di salvatore Morelli e di Salvatore Mantella. Secondo Bartolomeo Arena ha fatto parte, dal 2013, dei Lo Bianco-Barba. «È un soggetto falsissimo – dice Arena – noi non avevamo molto rispetto di lui. È stato Mastro di Buon Ordine quando eravamo assieme con i Lo Bianco-Barba. Aveva il grado di trequartino. «È stato in carcere perché accusato di omicidio – racconta Arena – perché lui e un suo cugino, Luca Lo Bianco, erano imputati in un omicidio commesso nella zona di Paravati. Se non sbaglio avevano ucciso un tale che si chiamava Apa. Omicidio che non ha commesso Luca Lo Bianco, cioè colui che in realtà è stato condannato e ha pagato l’omicidio perché l’omicidio l’ha commesso Luca Lo Bianco “Il Rozzo” che, dopo parecchi anni di latitanza è stato assolto, non ricordo se in primo grado o in appello». «Era un uomo falso perché – spiega Arena – lui stava coi Lo Bianco-Barba ma quando noi abbiamo formato il nostro gruppo distaccato, lui sotterraneamente manteneva i rapporti con suo nipote Salvatore Morelli e anche con me. Ma, soprattutto, era falso perché si recava spesso da Diego Mancuso a Limbadi e gli portava tutte le novità che avvenivano a Vibo. Questo me lo disse Leonardo Manco perché spesso era lui che lo accompagnava da Diego Mancuso».
«È un soggetto pericolosissimo, può compiere azioni violente per anche per la più grande fesseria». Questa è la prima descrizione che “Vartolo” fa dell’ex sodale Domenico “Mommo” Macrì il quale, a detta di Bartolomeo “Vartolo” Arena, esordisce nella ‘ndrangheta col cugino Andrea Mantella. Finito in carcere con l’operazione “Good Fellas” esce nel 216, si stacca dai Lo Bianco-Barba e si unisce al gruppo dei Pardea-Ranisi. Si occupa di estorsioni, danneggiamenti, sparatorie, traffico di cocaina (che compra da Leone Soriano).
«Appena esce dal carcere, Macrì punta Gianfranco Ferrante, il proprietario del Cin Cin Bar di Vibo e gli chiede 5000 euro. Ma lo fa con un’arroganza che a Ferrante non piace. Macrì pensava di poter sfruttare Ferrante come faceva Mantella. Ma Ferrante non gli dà i soldi e si rivolge a me – dice Arena –, visto che eravamo imparentati, chiedendomi se potevamo fare qualcosa altrimenti sarebbe stato costretto ad andare “là sotto”, cioè ad andare dai Mancuso. Io andai da Mommo, alla presenza di suo padre, e gli dissi che non si potevano fare le cose che faceva Andrea Mantella. Lui sembrò calmarsi ma ben preso cominciò a chiedere soldi a tutti, a commercianti amici, non guardava in faccia nessuno».
«Cominciò – racconta Arena – a coltivare odio per i Pugliese Cassarola, sposando la nostra causa, ma facendolo nel modo peggiore: li guardava storto, faceva finta di investirli con la macchina. Un giorno mi disse: “Ti faccio prendere l’ergastolo. Finiamo in galera tutti ma gliela facciamo pagare”». Poi un giorno Mommo Macrì sparò su un piede a Nazzareno Cassarola e rese palese le sue intenzioni verso di loro. Rosario Pugliese reagì a quell’agguato e finì che sparò contro l’auto con a bordo Bartolomeo Arena e altri del gruppo. Saputo il fatto, Mommo Macrì andò, a sua volta, a sparare verso casa dei Cassarola, verso le vetrate delle case e contro le auto.
«Macrì incendiò la casa del cognato di Pugliese Cassarola. Ha incendiato una o due macchine ai Pugliese Cassarola. Ci disse che non era stato lui ma poi abbiamo scoperto che era stato lui. Un’altra cosa che non ci disse fu che aveva appeso un cagnolino morto al negozio Giannini per intimidirlo a scopo estorsivo. Lui se la negò dicendo che erano stati i Lo Bianco ma Francesco Antonio Pardea lo ha scoperto».
Ad un certo punto Domenico Macrì si avvicina a Giuseppe “Peppone” Accorinti. Macrì comprava la cocaina da Leone Soriano che venne fatto uccidere brutalmente, come racconta anche Bartolomeo Arena, proprio da Accorinti. E pensare che inizialmente Mommo si era accordato con Leone Soriano per uccidere Accorinti. Dopo un incontro con Soriano portò l’imbasciata a Francesco Antonio Pardea: Leone Soriano sarebbe andato ad uccidere Rosario Pugliese Cassarola se il gruppo dei Pardea-Ranisi, o meglio i cugini Francesco Antonio Pardea e Domenico Macrì, avessero ucciso Giuseppe Accorinti. Con gli arresti dell’operazione Nemea la cosa andò in fumo ma Domenico Macrì temeva che dalle intercettazioni dell’operazione si potesse scoprire il ruolo dei Pardea-Ranisi nel piano contro Accorinti. Quando Mommo Macrì si tranquillizzò sul fatto che nelle intercettazioni non c’era nulla che li potesse compromettere, tramite Saverio Razionale, col quale aveva un rapporto un po’ più stretto, si avvicinò a Giuseppe Accorinti. Così dai Soriano passò ad essere intimamente vicino a Saverio Razionale e Giuseppe Accorinti, nonostante i Soriano avessero manifestato l’intenzione di aiutarlo nella risoluzione dei problemi con i Pugliese Cassarola.
Per conto di Accorinti, Macrì fece delle intimidazioni nella zona di Vena di Ionadi. Per una settimana, racconta Arena, vi furono sparatorie contro gli esercizi commerciali e le imprese, comprese la Bartolini e la Stocco e Stocco. Era il 2016. Sulla Bartolini dovette intervenire, dice il collaboratore, lo stesso Luigi Mancuso poiché già nel passato la Bartolini aveva interessato i Bellocco di Rosarno e i Mancuso di Limbadi. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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