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«Calabria al napalm. La strategia del fuoco in una regione in perenne emergenza»

All’origine dei roghi in Calabria c’è innanzitutto una tara storica e antropologica. Solo per alcuni anni il Parco Nazionale dell’Aspromonte approntò una strategia vincente: il territorio del parco…

Pubblicato il: 06/08/2021 – 8:22
di di Francesco Bevilacqua*
«Calabria al napalm. La strategia del fuoco in una regione in perenne emergenza»

Tutte le volte che la Calabria brucia, mi tornano alla mente le immagini di Apocalipse Now di Francis Ford Coppola. La scena è quella in cui, mentre infuria la battaglia nella giungla vietnamita, con bombe, mitragliatori e vampate di fuoco, Robert Duvall, nei panni del generale statunitense, a torso nudo e con un cappellone da cow-boy, scende da un elicottero, spavaldo e sghignazzante, e pronuncia la famosa frase: “Quanto mi piace l’odore del napalm!”. Ecco, dinanzi ad un incendio boschivo, in Calabria (parlo della Calabria perché è la regione in cui vivo e che conosco meglio), immagino sempre qualcuno che, come il generale del film di Coppola, gode – e lucra – a veder divampare le fiamme. Abbiamo avuto molte estati al napalm in Calabria: sono bruciati i parchi del Pollino e dell’Aspromonte; bruciarono le colline attorno a Catanzaro sino a lambire l’abitato; bruciarono i terreni attorno Santa Caterina sullo Ionio; bruciò il Monte Paleparto in Sila Greca, e via discorrendo. In queste ore decine e decine di incendi stanno devastando la regione. Gli ultimi, fra i più gravi: Acri, Rovito, Gizzeria, Isca sullo Ionio, Badolato, Caulonia, Lamezia Terme, Morano, Roccaforte del Greco, Longobucco. Ma tra la fine di luglio e questo inizio di agosto sono centinaia i roghi che, dopo aver distrutto Sardegna e Sicilia, stanno attaccando ora la nostra regione (come era ampiamente prevedibile). L’aria è irrespirabile ovunque: fuliggine, cenere e fumo giungono dappertutto, rendendo sinistro un paesaggio che d’estate dovrebbe essere la quintessenza della dolcezza; le campagne, gli uliveti, i frutteti distrutti; la macchia mediterranea cancellata; i boschi insidiati; gli abitati assediati.
All’origine dei roghi in Calabria c’è innanzitutto una tara storica e antropologica, come spiega bene Piero Bevilacqua nei suoi scritti. In una regione povera di pianure (solo il 9% del territorio è in piano) e ricca invece di montagne densamente alberate (con 480.000 ettari di foreste siamo fra le prime quattro regioni più forestate d’Italia), il bosco è sempre stato considerato “ladro di terra” da contadini e pastori che, sin dal Neolitico, hanno provato a distruggerlo proprio col fuoco. Era l’antica pratica del “debbio”, che in Calabria si chiama “cesina”. Poi vi è la consuetudine dei pastori di bruciare i pascoli quando sono secchi perché così facendo l’erba si rinnoverebbe prima. Ma oggi, queste vecchie usanze sono aggravate da azioni concomitanti dovute ad altri fattori.
Innanzitutto i bruciatori di sterpaglie, che, in barba al divieto di accendere fuochi liberi durante l’estate decretato ogni anno dalle autorità regionali (con relative sanzioni), continuano a dar fuoco a potature, sfalci e arbusti, convinti di poter tenere sotto controllo un fuoco, che, invece, puntualmente sfugge e si diffonde con rapidità inimmaginabile. Poi vi sono i piromani, ossia coloro che, intenzionalmente, appiccano il fuoco. Le motivazioni di questa categoria di persone sono diverse. Fra le più diffuse: una vera e propria psicopatia; ritorsioni verso vicini, nemici o verso enti pubblici; rivalità fra squadre di cacciatori cinghialai che agiscono su territori confinanti; interessi economici vari.
Le statistiche del Corpo Forestale prima e quelle dei Vigili del Fuoco ora escludono che abbia rilievo per gli incendi in Italia l’autocombustione: è sempre l’uomo che o per imprudenza o per dolo causa gli incendi. E, da quanto abbiamo visto negli ultimi decenni, non c’è nulla (neppure le azioni di sensibilizzazione) che possa far diminuire il fenomeno.
Occorre dunque concentrarsi sulle azioni di contrasto: spegnimento e, ancor prima, prevenzione. La prima cosa da fare è il controllo del territorio. Fra satelliti, droni, telecamere e forze dell’ordine varie, non dovrebbe essere difficile ormai, da un lato, obbligare i padroni dei terreni a ripulirli prima dell’estate e, dall’altro, bloccare sul nascere i fuochi liberi (che sono vietati) ed applicare sanzioni durissime contro chi li provoca. Oltretutto le zone interessate dagli incendi boschivi sono sempre le stesse. Segno questo che anche gli incendiari sono sempre gli stessi. In secondo luogo, occorrerebbe intervenire tempestivamente con squadre attrezzate a terra (provviste di mezzi leggeri) per bloccare l’incendio sul nascere: operai forestali specializzati, squadre comunali approntate proprio per questo tipo di emergenza, volontari. Quando c’era il Corpo Forestale dello Stato e tanti paesi avevano le Stazioni Forestali e c’erano le squadre antiincendio composte da operai forestali, il territorio era praticamente presidiato, comune per comune. Oggi, con il venir meno di entrambe le istituzioni, restano i soli Vigili del Fuoco a dover sopperire. E, con la speranza dei mezzi aerei, si tende a non intervenire più nell’immediatezza, salvo che non siano interessate vie di comunicazione importanti, case o abitati da porre in salvo. Degli attuali 5300 operai forestali rimasti in Calabria dopo la L. 442 del 1984 che ha bloccato le nuove assunzioni, la gran parte è prossima alla pensione e solo 450 operai di Calabria Verde (l’ente sub-regionale che gestisce il demanio forestale) sarebbero destinati allo spegnimento degli incendi. A questi si aggiungano i pochi operai dei consorzi di bonifica.
Questa la situazione. Bisognerebbe trarne le conseguenze ed assumere i necessari provvedimenti: con un piano di prevenzione che inizi mesi prima dell’arrivo di luglio ed agosto, con un controllo capillare del territorio per applicare il divieto di accensione di fuochi liberi d’estate; con la revisione dell’intero comparto forestale, dalla cura dei rimboschimenti, oggi lasciati a sé stessi, al rinnovo del personale ed alla sua formazione proprio nell’antincendio. Da anni, cittadini ed associazioni, dal Pollino all’Aspromonte, chiedono alle istituzioni di non limitarsi a stipulare contratti con le società che gestiscono i mezzi aerei, ma a concertare, invece, un’azione corale per ridurre le conseguenze di questo grave fenomeno. Tutte le istanze sono rimaste lettera morta.
Solo per alcuni anni, quando presidente dell’ente fu il prof. Tonino Perna, il Parco Nazionale dell’Aspromonte approntò una strategia vincente: il territorio del parco fu diviso in settori e ciascun settore fu affidato ad associazioni ed enti per il controllo. Con un meccanismo remunerativo semplice ma ingegnoso, a fine anno i “gestori” dei vari territori venivano remunerati: più il territorio loro assegnato era stato risparmiato dagli incendi e dai danni e più cresceva la remunerazione; viceversa, se gli incendi e i danni erano cospicui, gli incentivi diminuivano drasticamente. Per anni non si registrarono incendi gravi e danni seri in Aspromonte. Come tutte le buone pratiche, anche questa venne affossata, non fu imitata ed anzi fu boicottata.

*scrittore e avvocato

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