REGGIO CALABRIA Avrebbero continuato a lavorare su un territorio “avvelenato”, perché «nell’ambito dei rifiuti movimentati nel cantiere Paeco presso il torrente Sant’Agata spicca la presenza di amianto frantumato, illecitamente gestito dall’impresa (vertici e dipendenti) con la compiacenza del responsabile del procedimento e del direttore dei lavori». Ipotesi che, secondo la Dda di Reggio Calabria, sarebbe corroborata «dal monitoraggio video, dalle conversazioni captate e dai sopralluoghi in sito». Il filone dei reati ambientali nell’inchiesta “Mercato libero” investe in pieno la Paeco srl, azienda lucana che si era aggiudicata, per 3 milioni e 240mila euro, l’appalto per il collegamento viario sulle golene del torrente Sant’Agata, tra la superstrada Jonica e la zona sud di Reggio Calabria.
«Il materiale misto a rifiuti – evidenziano i pm reggini – anziché essere selezionato e/o smaltito, secondo quanto previsto dalla normativa di settore, è stato miscelato con terra e rocce da scavo, per poi essere interrato a riempimento di buche». Il motivo: «Evitare l’inevitabile sospensione dei lavori che ne sarebbe derivata, ove fosse stato attuato il dovuto piano di controllo, con annessa programmazione di confinamento, incapsulamento e rimozione dell’amianto». Nel capo di imputazione viene quantificato l’«ingiusto profitto», cioè il risparmio di spesa per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti con conferimento in discarica e bonifica del sito: sarebbe «pari a circa 13 milioni di euro (e comunque in un range ricompreso tra 9,7 e 16,3 milioni di euro)». L’amianto sarebbe stato movimentato, frammentato e interrato «all’interno dell’area di cantiere sito nell’alveo del Torrente Sant’Agata di Reggio Calabria» anche se i documenti ufficiali ne attestavano il trasporto e lo smaltimento in impianto. Area che, comunque, risulterebbe segnalata tra i siti a rischio dal 2007.
È la stessa Paeco a comunicare all’Arpacal, alla direzione dei lavori e al Comune di Reggio Calabria, in una nota del 2 maggio 2017, di aver trovato nell’area di cantiere «numerosi depositi di rifiuti di vario genere tra cui anche cumuli di amianto». Di questi scarti, l’impresa avrebbe «omesso di stimare il volume, la consistenza, l’integrità e la precisa dislocazione, specificando però che, prima di qualsivoglia movimentazione dello stesso, avrebbe predisposto il Piano dei Lavoro e, successivamente all’approvazione, organizzato il trattamento dei rifiuti secondo le vigenti disposizioni di legge». Una procedura che, secondo la Dda di Reggio Calabria, «veniva disattesa». Lo proverebbe una conversazione tra due dipendenti dell’azienda. «Ehi, ti stavo dicendo – dice il primo – l’altro giorno sono venuti i carabinieri del Noe, il gruppo ambientale, e ci hanno sospeso il cantiere dicendo che bisogna smaltire quei cumuli d’amianto che ci sono». La risposta viene idealmente sottolineata in rosso dagli inquirenti: «Ma questo andava fatto dall’inizio, lo sai?». Dalla conversazione, in sostanza, emergerebbe che gli addetti ai lavori «abbiano operato in area di cantiere in presenza di cumuli di amianto, facendo riferimento anche all’utilizzo di grossi mezzi d’opera a ridosso dei siti di amianto: «Perché noi non potevamo lavorare con l’amianto a terra (…) e andare vicino con la benna». Per i pm, questi dialoghi proverebbero «come l’impresa Paeco srl abbia operato in totale assenza di un piano operativo di sicurezza e di gestione dell’amianto, provocando in tal modo la rottura delle onduline di cemento amianto, con conseguente pericolosa frammentazione, cagionata sicuramente dall’utilizzo dei mezzi d’opera».
Più colorita ed esplicita è un’altra intercettazione nella quale diventano espliciti i timori rispetto a un eventuale «improvviso controllo sull’area di cantiere da parte delle autorità preposte alla vigilanza»: «Se viene la Forestale ci fa un culo quanto una scimmia, ci fa… hai capito?».
Le paure deriverebbero da una indagine simile avviata su un altro cantiere a Rossano, la cui area era stata posta sotto sequestro nel settembre 2017 (qualche giorno prima delle conversazioni intercettate), con tanto di denuncia per otto persone tra dirigenti e rappresentanti di Calabria Verde.
Quando la direzione dei lavori effettua un sopralluogo spunta il discorso sull’amianto: «Sono venuti a vedere se stavano i rifiuti? Ma gliel’hai detto che se scaviamo un pochino escono i rifiuti là? Gliel’hai detto?», è la domanda. «Gliel’ho detto, non gli potevo dire che esce l’amianto, però gli ho fatto vedere tutti i siti». «Come non gli potevi dire che esce l’amianto? Se esce l’amianto bisogna dirlo, no che non glielo potevi dire».
Il commento degli inquirenti è tranciante: «I commenti (…) relativamente alla presenza di amianto anche al di sotto della superficie rimarcano la consapevolezza riguardo alle disastrose situazioni dell’area di cantiere». Gli interlocutori «sono perfettamente a conoscenza della rilevante presenza di amianto (oltre che di numerose altre tipologie di rifiuti) interrato nel sottosuolo, ma ciò non è stato sufficiente a farli desistere dal movimentare grosse quantità di terra nella medesima area». E l’idea di informare la direzione dei lavori sulla presenza del materiale sarebbe finalizzata al «raggiungimento dell’unico obiettivo prefissato che altro non è che quello di addossare all’amministrazione comunale gli onerosissimi costi di bonifica del cantiere».
Nelle conversazioni emerge la consapevolezza che le aree contaminate siano molte. C’è «amianto a monte e amianto a valle». Nei documenti ufficiali, però, si sarebbe proceduto, secondo l’accusa, a una rideterminazione al ribasso dell’area contaminata, «passando da una stima originaria di 112mila metri quadri a circa 500-600 metri quadri». Inoltre, sarebbe stato «modificato il dato relativo alla presenza di rifiuti contenenti amianto da una profondità di circa 2,5 metri a soli 10 centimetri». Questo per «scongiurare l’insorgere di eventuali problematiche connesse sia agli evidenti oneri per lo smaltimento e alla bonifica dell’area che all’impossibilità della Paeco nel trattare quella tipologia di rifiuto in assenza della necessaria autorizzazione». Il profitto viene prima dell’ambiente, ma questa non è una novità.
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