L’Aspromonte è vivo! Nonostante gli umani che appiccano il fuoco. Nonostante gli umani che, con le loro omissioni, hanno consentito che il fuoco divorasse i boschi. Lo è grazie ad altri umani, quelli che hanno spento i roghi. Primi fra tutti i tanti volontari. L’Aspromonte è vivo perché nessun umano è più forte della montagna. “Pensare come le montagne” scriveva Aldo Leopold: questo dovremmo fare! Le montagne, l’Aspromonte, infatti, ci guardano senza rancore, non conoscono l’odio, che è un sentimento solo degli umani. Le montagne, l’Aspromonte non distinguono fra ciò che è buono e ciò che è cattivo. A loro importa solo perpetuare la vita. E la vita – lo insegnano tutte le religioni del mondo – si perpetua anche attraverso la morte.
Alla montagna non interessa chi abbia appiccato il fuoco. La montagna assiste imperturbabile, da millenni, a quegli strani traffici. Sa che gli umani hanno un odio atavico verso “il bosco ladro di terra”. Sa che ogni anno qualche umano appiccherà il fuoco e che qualche altro umano lo spegnerà. Sorridono di fronte a questa follia, ma certo non fanno processi. I processi, invece, li fanno gli umani. Anche quando non sono giudici. Come quel tale che appena avantieri, con un post sui social traboccante livore, addebitava pubblicamente a tutti noi che da decenni difendiamo l’Aspromonte dagli stereotipi e dai pregiudizi, la causa degli incendi. Come a dire: a furia di parlar bene della “gente in Aspromonte”, dei paesi, delle tradizioni, della cultura, della letteratura, dei paesaggi, a furia di scrivere le storie della montagna, a furia di percorrere a piedi i suoi sentieri e farli conoscere, a furia di portar gente a riscoprire i luoghi, a furia di riunirci sotto le “querce bruciate” di Africo antico (che poi non sono affatto bruciate!), avremmo consentito che il fuoco divorasse la montagna. Un singolare (s)ragionamento! Che fa il pari con quello di un altro tizio, autore di un libro secondo il quale l’arretratezza del Sud Italia sarebbe colpa degli scrittori “meridionali” (categoria inventata da lui), da Verga sino ai contemporanei, passando per Alvaro e Carlo Levi (esclusi, ovviamente, solo sé stesso ed un paio di sodali) per non aver consentito che la modernità, nelle sue declinazioni di urbanesimo ed industria, si insediasse (!) nel Mezzogiorno. Traduco per chi non avesse capito: secondo costui, chi scrive storie di campagne, di piccoli paesi, di contadini, di pastori è colpevole del mancato arrivo di una borghesia illuminata, di grandi metropoli, di grandi poli industriali. Mi domando: ma hanno contato davvero tanto gli scrittori che scrivono del Sud? Ma se al Sud quasi nessuno legge libri? Ed il fallimento della Liquichimica di Saline Joniche, del Quinto Centro Siderurgico di Gioia, della SIR di Lamezia e delle industrie di Crotone è colpa degli scrittori? E, infine, siamo proprio sicuri che l’urbanesimo e l’industria ci sarebbero serviti? La lezione di Taranto e dell’ILVA non insegna niente?
Anche l’Aspromonte è rimasto perplesso. Ed ha aggiunto alla lista degli odiatori seriali il tale di cui prima dicevo, quello delle accuse agli amici dell’Aspromonte. Talmente odiatore è stato, da definire la “gente in Aspromonte”, e noi che l’onore di quella gente difendiamo, “scannatori di capre”. Certo: in Aspromonte si uccidono capre, e maiali anche, e vitelli e galline, come nel resto del mondo. Anche dove vive Lei, caro professore. Anche nella sua bella cittadina, nei paesi e nelle campagne che la circondano. Ah, lei si riferisce all’uccisione al Santuario di Polsi durante la festa della Madonna! Ma quel “rito” (lo ricorda ancora cos’è un rito?) è finito da tempo, da quando i NAS lo proibirono per ragioni igieniche, fra le proteste di tanti antropologi come Lei, che su quel rito e su altri legati all’apparizione del sangue in segno beneaugurante (ad esempio i flagellanti di Nocera e Verbicaro) hanno costruito le loro fortune accademiche. Mentre nei paesi attorno a dove abita Lei – come dappertutto – i maiali continuano a sgozzarli indisturbati, senza che Lei si pregi di chiamare i Suoi concittadini “scannatori di porci”. Veda, caro professore, come diceva Adriana Zarri, occorre più coraggio ad uccidere una gallina con le proprie mani per mangiarla, come faceva proprio la scrittrice e monaca laica scomparsa nel 2010, che non ad acquistare la fettina di vitello tenero “già scannato” dal macellaio sotto casa, come invece fa Lei. Solo se lo fai con le tue mani, infatti, comprendi la gravità del gesto e capisci che dovrai espiare la colpa per propiziarti l’arrivo di altro cibo, come nei graffiti di animali nella Grotta di Lascaux. Ma tutte queste cose Lei dovrebbe averle studiate a scuola.
Certo – Lei vuol sentirmelo dire, vero? – in Aspromonte c’è anche la ‘ndrangheta. Ma poiché le mafie sono anche in America, in Russia, in Cina, in Giappone, a Roma, nella “Padania”, Lei crede che si debbano bollare a vita tutti gli abitanti di questi paesi come mafiosi? E che chi li difende dalla diffamazione continua ed indistinta sia connivente e colluso? Non credo che lo pensi. Però nel suo scritto fa allusioni. Perché l’allusione, la diffamazione strisciante, la calunnia è un metodo antico quanto il mondo e non ha nulla di quella “modernità” di cui Lei si proclama difensore e che vorrebbe spalmare come una mano di vernice fresca sull’Aspromonte.
Scusatemi, cari lettori, vi avevo trascurati per rivolgermi direttamente al professore. Torno da voi e concludo. Badate che dopo ogni catastrofe insieme agli aiuti arrivano gli avvoltoi necrofagi a cibarsi delle “capre scannate” dal fuoco. Arriveranno anche in Aspromonte, con la gioia degli zoologi, e anche degli antropologi. E allora vi dico: seppelliamo i morti prima che vengano divorati, proseguiamo con fiducia il nostro difficile cammino, difendiamo quel che abbiamo faticosamente conquistato sino ad oggi. Non facciamo come gli odiatori seriali. Impariamo a pensare come le montagne.
*Avvocato e scrittore
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