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«L’agenda politica e il Pnrr»

Il governo Draghi è un’esperienza di governo interessante anche dal punto di vista politologico, perché, coinvolgendo quasi l’intero arco costituzionale, costituisce un’ulteriore occasione di rifl…

Pubblicato il: 23/08/2021 – 11:47
di Antonino Mazza Laboccetta*
«L’agenda politica e il Pnrr»

Il governo Draghi è un’esperienza di governo interessante anche dal punto di vista politologico, perché, coinvolgendo quasi l’intero arco costituzionale, costituisce un’ulteriore occasione di riflessione sulle tradizionali categorie della politica, che da qualche lustro – più esattamente dalla c.d. caduta delle ideologie e dal conseguente rifluire del pensiero politico nella cultura “mercatista”-, si sono, come ampiamente noto, appannate in una sorta di “indistinto”. Indistinto nel quale risulta a tratti difficile recuperare le tradizionali differenze tra la cultura liberale o liberaldemocratica e la cultura socialdemocratica.

Il ritorno dello Stato salvatore?

Quale fosse la distinzione tra destra e sinistra, se lo chiedeva Bobbio in un bellissimo libro (“Destra e sinistra”, 1994), traendo sostanzialmente la conclusione che il diverso atteggiamento nei confronti dell’idea di uguaglianza fosse il tratto essenziale che vale a polarizzare le due categorie della politica. Secondo il filosofo torinese, per gli alfieri della destra la diseguaglianza c’è e basta, ed è fatto, se vogliamo, addirittura ineliminabile, se non nei termini in cui l’aveva immaginato la Thatcher: se i ricchi godono di una tassazione più bassa, l’effetto sarà quello di creare ricchezza e benessere per tutti, comprese le classi meno abbienti (è, in sintesi, la c.d. trickle down economy, cioè l’economia dello “sgocciolamento”); i corifei di sinistra si battono, invece, per ridurre la disuguaglianza, contrari come sono all’idea thatcheriana che “non esiste la società; esistono gli individui”. Dopo il riflusso monetarista degli anni ’80 del secolo scorso, la distinzione è, tuttavia, ampiamente contestata soprattutto nell’opinione pubblica, e lo è tuttora, benché la crisi del 2008 e quella provocata dall’attuale pandemia abbiano indotto a sperimentare nuovamente il ruolo dello Stato nell’economia, vuoi come zattera di salvataggio, vuoi come ultima spiaggia, vuoi come regolatore dei meccanismi di allocazione delle risorse: ma pur sempre di Stato nell’economia si tratta. Penso ai salvataggi bancari, finalizzati ad evitare crisi sistemiche (vi sono banche troppo grandi per fallire). Penso ai salvataggi delle grandi imprese in crisi, consumatisi tra le strettoie dei vincoli comunitari relativi agli aiuti di Stato. Penso alle inondazioni di denari dentro il circuito economico per ridare fiato a persone, famiglie, professionisti, imprese soffocati dalla pandemia. E penso, infine, al ruolo della Bce in questi ultimi anni: pur spingendosi fino (e probabilmente oltre) il limite del suo mandato istituzionale, ha sorretto il debito sovrano attraverso politiche espansive che, pur necessarie, non sono, a giudicare anche dalle forti tensioni suscitate in Germania (dove è arrivata a pronunciarsi anche la Corte di Karlsruhe), del tutto ortodosse (leggi: quantitative easing).

L’oscillazione del pendolo

Al netto della riforma del Titolo V, che pure tanti problemi ha causato, abbiamo assistito, e molto spesso subito, conati di riforme costituzionali. Per carità, non tutte da rifuggire, se fatte in modo chirurgico o secondo logiche che non siano di bassa cucina (aspettativa, quest’ultima, invero non facile a realizzarsi, considerata la temperie politico-culturale che viviamo). E, però, non possiamo non dire che la nostra Costituzione ha sostanza ed è di fibra così buone che ha saputo, al tempo stesso, consentire e reggere nel corso degli anni politiche di nazionalizzazione e politiche di privatizzazione. Ha, insomma, accompagnato lo sviluppo del nostro Paese, permettendo al pendolo di oscillare, com’è giusto che sia, tra socialdemocrazia e liberaldemocrazia, tra Stato e mercato, secondo gli equilibri storicamente necessari. Certo, prima della caduta del Muro, la democrazia in Italia, se escludiamo la parentesi sfortunata del compromesso storico, ha sempre ruotato intorno alla Democrazia cristiana, escludendo il Partito comunista. Democrazia bloccata? “Nì”. Perché, a ben riflettere, all’interno della stessa Democrazia cristiana il pendolo, in fondo, ha sempre oscillato, per molti versi, tra le varie culture che l’animavano. E anche all’esterno la costruzione delle alleanze di governo, pur avendo al centro la Democrazia cristiana, ha sempre orientato, ora in un senso ora nell’altro, gli scenari dell’azione politica. Escluso sul piano nazionale, non si può dire, però, che il Partito comunista non abbia sempre esercitato quella che va sotto il nome di egemonia culturale, che ha soffiato non solo nelle roccaforti di governo locale e in spazi amplissimi della società civile, ma anche in larghi settori della magistratura. Dopo la caduta del Muro, il regime capitalistico e la civiltà occidentale sembravano non conoscere più ostacoli, tanto da indurre a parlare, da un lato, di secolo breve (Hobsbawm, “Il Secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi”, 1994), dall’altro, di fine della storia (Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, 1992). Ma le troppo ottimistiche previsioni sulle “magnifiche sorti e progressive” della civiltà occidentale non avevano fatto i conti con i limiti dello sviluppo capitalistico, con l’irrompere del terrorismo sulla scena globale animato da religioni legate a intrecci tribali che muovono dallo scenario geo-politico mediorientale, con la perenne instabilità derivante dal conflitto israelo-palestinese, con il precipitare della condizione ecologico-ambientale del pianeta, troppo a lungo utilizzato come bene di consumo e non come risorsa. Sui limiti dello sviluppo capitalistico anche la Chiesa ha avvertito, non da ora, l’esigenza di dire forte la sua parola: da Giovanni Paolo II (“Sollicitudo rei socialis” [1987] mette in luce la questione sociale, a vent’anni dalla “Populorum progressio” di Paolo VI) a Papa Francesco (“Laudato sì’” [2015] è un potente monito a prendersi cura della “casa comune” e a recuperare l’economia integrale).

Le forze politiche e il Pnrr

Le circostanze che hanno portato al Governo Draghi sono ampiamente note. L’emergenza sanitaria ed economica, dopo la crisi del secondo “governo Conte”, ha portato ad affidare all’autorevolezza di Draghi le sorti del nostro Paese, tenuto conto soprattutto dell’esigenza di governare con la dovuta sapienza le ingenti risorse del Pnrr, che costituisce per il nostro Paese una sorta di “vincolo esterno”. Vincolo che, pertanto, obbliga tutte le forze politiche a muoversi su bene precisi e determinati binari, affrontando le riforme strutturali previste dal Piano e destinate a cambiare radicalmente il paradigma di sviluppo: penso, in particolare, alla transizione ecologica, che dovrebbe disarticolare le dinamiche economiche sin qui seguite, attraverso una sorta di “distruzione creativa” di schumpeteriana memoria, per portare infine ad un diverso assetto ed a un nuovo modello di sviluppo. Dentro i rigidi binari del Pnrr, è lecito chiedersi se vi sia ancora lo spazio per l’espressione delle varie culture e sensibilità politiche. Ritengo proprio di sì, considerato che il Piano ha un respiro così vasto da consentire, per tornare a Bobbio, alle diverse forze politiche di manifestare il loro “atteggiamento rispetto all’idea di uguaglianza”: non dimentichiamo che il Piano si articola in capitoli che vanno dall’istruzione e ricerca, alla cultura, all’inclusione sociale e alla coesione, alla salute, alla digitalizzazione (leggi: digital divide), all’innovazione e alla competitività. Pur nel solco del Pnrr, rimane sotto traccia l’agenda che è (o dovrebbe essere) espressione delle varie culture politiche. Va subito detto che i sistemi elettorali finora sperimentati non sono riusciti a polarizzare il sistema politico, se non in forma vischiosa, e a dare omogeneità agli schieramenti in campo. E, però, in vista delle elezioni, amministrative prima e politiche dopo, è necessario che le forze in campo escano allo scoperto su temi sui quali, a mio avviso, ci sono – eccome! – le differenze tra cultura e sensibilità liberale o liberaldemocratica e socialdemocratica: il valore dell’individuo e della persona (il Meeting di Rimini di quest’anno è intitolato al coraggio di dire “io”); l’accento sui diritti individuali, umani e civili, e il loro rapporto con lo Stato; l’emersione di nuovi diritti nel campo della bioetica e delle tecnologie più avanzate. Quanto le forze politiche in campo ritengono che si possa intervenire sull’ambiente sociale per “plasmare” il carattere e il comportamento degli individui e quanto invece contestano che il carattere degli individui si possa plasmare? Qual è l’idea di giustizia sociale che distingue le forze politiche in campo? E qual è l’idea di giustizia sociale che queste hanno in rapporto ai confini nazionali? (una domanda, quest’ultima, che chiama le forze politiche a manifestare la propria weltanschauung rispetto alla grande epocale sfida dell’immigrazione e a dire se i doveri di solidarietà cui impegna la Costituzione siano ancorati ai confini nazionali o non si estendano piuttosto alla scena internazionale). Qual è l’atteggiamento delle forze politiche verso il mercato? È solo lo strumento fondamentale per mettere in relazione domanda e offerta (di beni, di servizi, di lavoro)? O è, per usare un vecchio adagio, uno strumento troppo importante per essere lasciato a se stesso? Benché si possa dire che liberalismo e socialdemocrazia condividono in larga parte gli stessi valori fondamentali, diversa è l’importanza “relativa” che ciascuno assegna loro, e il compromesso e il bilanciamento cui sono disposti a sottoporli. Come si pongono le forze politiche rispetto alle tre domande fondamentali dell’economia: cosa produrre, come produrre, come distribuire il prodotto? Quanto la risposta dipende dal grado di libertà dei prezzi sul mercato e quindi dalla limitazione di regolamentazioni e interventi esterni e quanto dall’esigenza di intervenire sulla distribuzione del reddito e della ricchezza? Quanto la disparità di reddito incide sulla distribuzione di servizi fondamentali ed essenziali come sanità e istruzione? Non si sentono purtroppo risposte chiare a queste domande a causa dell’afasia delle forze politiche, variamente legata alla fragilità dell’elaborazione culturale che li caratterizza, alla tendenza a rincorrere il consenso attraverso la semplificazione del discorso politico, alla struttura leaderistica dei partiti cui non corrispondono né radicamento territoriale né adeguate e attrezzate articolazioni organizzative (sentiremo cosa diranno i capi-partito al Meeting di Rimini sul tema “Il ruolo dei partiti nella democrazia”), alla concezione della politica come mero veicolo di potere e di ascesa sociale. Pur nel rispetto rigoroso del vincolo esterno imposto dal Pnrr, l’agenda politica non può non misurarsi con i grandi temi legati alle domande poste e, quindi, al sottile perenne equilibrio tra libertà e uguaglianza che sempre ha caratterizzato l’azione dei partiti, alla ricerca di un ideale di giustizia sociale che ora assume la libertà individuale come valore prioritario, inteso quale diritto degli individui di fare tutto ciò che vogliono, purché non rechino danno agli altri, ora quale possibilità di “accedere” alle risorse per fare, nel rispetto delle leggi, ciò che si vuole.

*Professore Università Mediterranea di Reggio Calabria

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