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«Aspromonte, the day after. Tra restauro del paesaggio e cliniche dei risvegli»

Qualche anno fa, scendendo lungo la stradina sterrata che si tuffa verso Santa Trada, nella vallata dell’Amendolea, in Aspromonte, stentavo a riconoscere il luogo nel quale ero stato più di vent’a…

Pubblicato il: 27/08/2021 – 8:14
di francesco bevilacqua*
«Aspromonte, the day after. Tra restauro del paesaggio e cliniche dei risvegli»

Qualche anno fa, scendendo lungo la stradina sterrata che si tuffa verso Santa Trada, nella vallata dell’Amendolea, in Aspromonte, stentavo a riconoscere il luogo nel quale ero stato più di vent’anni prima. Il fuoristrada faticava sullo sconnesso (a dir poco) fondo stradale, che ricordavo, invece, in buone condizioni. Ai due lati della stradina le fronde tentacolari delle ginestre parevano volerci inghiottire. Trovare una visuale per orientarmi fu un’impresa. Alla fine giungemmo, alla meno peggio, all’ovile dell’anziano pastore che avevo conosciuto nella precedente occasione. Stava schiumando la ricotta in un rudere che si spalancava su un baratro. Le pendici di quel tratto di valle, che ricordavo glabre, spoglie di vegetazione arborea, erano divenute invece un intrico micidiale di cespugli. Riuscimmo a scendere ugualmente nelle gole attraversando una giungla di rovi, eriche e ginestre. Compimmo il nostro cammino verso le cascate Linnha e Castanò. Risalimmo la stradina dopo aver fatto visita al pastore, la moglie e i figli in una casina appollaiata su un picco andino. Andai via con una stretta al cuore: mi domandavo come era possibile che quel luogo tanto vissuto e tanto remoto, quella famiglia pervicacemente legata alle sue terre ancestrali, fossero abbandonati a sé stessi.
Di recente un amico di Reggio Calabria ha telefonato al pastore per chiedere le condizioni della stradina, dovendo condurre delle persone alle cascate. Mi ha riferito la risposta: «Potete venire tranquillamente. Qui è tutto bruciato. La stradina è stata sistemata per far passare i mezzi antincendio». Che paradosso! Per rendere vivibile un luogo vissuto da secoli è stato necessario un incendio! Per più di vent’anni nessuno si è curato di quel luogo, nessuno ha chiesto alla sua piccola comunità di cosa avesse bisogno, nessuno si è domandato quali fossero le condizioni ambientali della valle dell’Amendolea e se esse fossero compatibili con l’alto rischio incendi che da sempre incombe sull’Aspromonte, sulla Calabria, su tutta l’Europa mediterranea.
Oggi può sembrare assurdo, ma è un fatto che in passato pastori e contadini usassero il fuoco per tenere puliti i terreni, i pascoli, i transiti. Ma fino a trenta, quaranta anni fa, questa pratica secolare era in mano a gente esperta, che sapeva come, dove e quando utilizzare il fuoco: si sapeva cosa avrebbe provocato, dove si sarebbe fermato, come era possibile bloccarlo. Perché nessun contadino o pastore esperto ha interesse ad incenerire l’intera montagna dove vive, lavora, ha gli animali, deve trovare erba, legna etc. Se possiamo usare un esempio azzardato, era una forma ante litteram di “fuoco prescritto”, un sistema che i forestali utilizzano, soprattutto negli Usa, bruciando sotto controllo zone che rischiano di divenire esche per incendi disastrosi. A parte il fatto che è proprio il fuoco ad aver creato nei secoli quell’alternarsi di boschi, macchie, praterie, punti panoramici che costituiscono il paesaggio della montagna calabrese, altrimenti interamente vestito di foreste. Poi venne la forestazione, il riempimento massivo dei terreni con conifere, la cancellazione di vaste estensioni di pascoli, radure, punti panoramici, paesaggi storici (il che non significa che i rimboschimenti siano stati un male, tutt’altro). Le condizioni ambientali dei luoghi mutarono radicalmente. E poi venne la fine della forestazione: i boschi artificiali furono abbandonati al loro destino; dal 1984, per una legge dello Stato, l’esercito di operai forestali che era stato reclutato in Calabria, con l’illusione di un posto stabile anche se stagionale, venne di fatto gradualmente smantellato, col divieto di nuove assunzioni; stradine forestali, strisce tagliafuoco e tutta la miriade di opere e di servizi realizzati durante gli anni gloriosi delle leggi speciali per la Calabria furono abbandonate a sé stesse, per come è nello stile dell’intervento pubblico al Sud. Il paesaggio della forestazione divenne così il paesaggio dell’abbandono, acuito oltremodo dallo spopolamento delle aree interne, dall’oceanizzazione (trasferimento delle comunità nei centri costieri), della drastica diminuzione delle tradizionali attività agro-silvo-pastorali, solo ultimamente in lieve ripresa. Sì, certo, anche gli operai forestali sono stati colti con le mani nel sacco ad appiccare incendi (ed anch’io ne ho avuto personalmente prova), ma questo non può essere utilizzato per bollare con un marchio infamante un’intera categoria. Fra quegli operai – mi raccontava Giulio Morrone, un maresciallo forestale che aveva una grande passione per i boschi e per il suo lavoro – c’era gente esperta, che in occasione degli incendi era capace di intervenire immediatamente, sotto la guida esperta del comandante della stazione forestale locale, solo con pale, scope ignifughe (flabelli), roncole, falci, decespugliatori, motoseghe ed evitare il propagarsi delle fiamme (anche di questo ho prova per avervi assistito personalmente).
Quel che è accaduto in Aspromonte – al netto dei reati commissivi (i piromani) ed omissivi (le istituzioni), al netto dei ritardi nei soccorsi, al netto della sottovalutazione del pericolo – è esattamente la conseguenza di quel che ho detto: la trasformazione del paesaggio con i rimboschimenti poi lasciati a sé stessi; l’abbandono delle aree interne (nel duplice senso di perdita di servizi essenziali e di mancanza di politiche di sviluppo sostenibile, da un lato, e di svuotamento di abitanti, dall’altro); lo smantellamento di tutta l’organizzazione che per anni ha governato la cura del territorio.
Dopo i roghi in Sardegna, i botanici sardi hanno diramato un appello per contribuire all’acceso (e confuso) dibattito su cosa fare sui terreni percorsi al fuoco e sulla smania di rimboschire. Non posso qui riportare tutti i punti toccati nell’appello. Mi preme però sottolineare come i botanici siano cauti e raccomandino un ripensamento delle politiche di riforestazione delle aree percorse dal fuoco, rilevando come sarebbe utile, piuttosto, un vero e proprio restauro paesaggistico che però non segua modelli calati dall’alto. Occorre invece, secondo gli studiosi, coinvolgere i soggetti che vivono e operano sul territorio, comprendere i loro bisogni, per renderli, sostanzialmente, custodi dei luoghi. E proprio l’esperienza di questi ultimi decenni – anche quella, esemplificativa, della Valle dell’Amendolea di cui raccontavo in apertura – deve farci riflettere attentamente prima di pianificare interventi nelle aree percorse dal fuoco. L’Aspromonte ha bisogno di cure, deve divenire una sorta di “clinica dei risvegli” dove si guarisce dall’amnesia dei luoghi che ha colpito la gente comune e dal coma topografico che ha inebetito le istituzioni. Ma perché le cure funzionino occorre la collaborazione dei pazienti e dei parenti. È esattamente su questo che tutti insieme dobbiamo interrogarci, dopo il disastro che ha vanificato anni di riabilitazione, riscoperta e conoscenza della montagna più vituperata d’Europa.

*Avvocato e scrittore

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