Chi ci è stato mi dice che i giganti di Acatti sono tutti morti. La più selvaggia foresta monumentale d’Europa è andata distrutta nei roghi d’Aspromonte: centinaia e centinaia di pini e querce fra i cinquecento ed i mille anni di età, altezze sino a cinquanta metri, circonferenze superiori ai nove metri. Non esistono più, contro ogni speranza. Alcuni ardono come i tizzoni di un enorme braciere. Altri sono in piedi, ma non vi è più linfa nelle loro vene. Altri fumano e tremano. Altri ancora si schiantano in terra con il fragore di un tuono. Non posso andare lassù! Non reggerei al dolore di osservare morenti mio padre, il pino e mia madre la quercia. No, non potrei veder morire chi mi generò. Sarebbe peggio. Un padre e una madre veri sai che moriranno, come lo sai di te stesso, di qualunque altro congiunto, di un amico, un conoscente. E quando accade soffri, ma te ne fai una ragione. È la “crisi del cordoglio” che secondo Ernesto De Martino si supera con i riti dedicati ai defunti. Socializzando il lutto, condividendo il dolore. Di quegli alberi di cinquecento e mille anni, invece, ho sempre pensato che mi sarebbero sopravvissuti, e di molto. Ho creduto che i miei figli ed i figli dei miei figli li avrebbero incontrati, non foss’altro per spargervi le mie ceneri. E non c’è modo di sciogliermi dal lutto, non basta un pianto rituale da versare sulle guance arrossate dai graffi.
Jacques Brosse, autore di “Mitologia degli alberi”, ci ricorda un episodio riportato nella “Farsaglia” di Lucano. Giulio Cesare, avendo ordinato ai suoi soldati di radere al suolo un bosco sacro ai Galli, nei dintorni dell’attuale Marsiglia, ed avendoli visti terrorizzati ed inerti, strappò l’ascia da un veterano ed atterrò egli stesso una quercia secolare. Poi si rivolse ai soldati e disse: “Ormai nessuno di voi esiti ad abbattere la selva; ritenete il sacrilegio compiuto da me!” Avevano paura, i soldati, di peccare contro di dei. E sapeva bene, Cesare, che anche il suo era un gesto sacrilego. Ma era iniziato l’antropocene, l’era in cui l’uomo si fa Dio. E Cesare s’immaginava già uguale a Dio.
Ed un Cesare da quattro soldi è colui che ha atterrato il Bosco di Acatti. Non ha avuto il coraggio di tagliarlo con le sue stesse mani. Vigliaccamente, ha utilizzato il fuoco. Appiccandolo lontano, ma certamente sapendo che sarebbe giunto sin lì. Dove il fuoco non aveva mai osato, come raccontano i vecchi pastori. È uno di quei pusillanimi che credono che la montagna debba essere loro e di nessun altro. È uno di quelli che non può sopportare che la montagna dia gioia alla gente, ai suoi stessi abitanti. Anche a costo di ridurla ad un mucchio di pietre annerite. È un frustrato, un rancoroso, un invidioso, un mal-vivente. Come ce ne sono tanti nel mondo degli umani. Come li avevano ben descritti i grandi narratori dell’Aspromonte.
Acatti era un’intera montagna nel cuore remoto, solitario e selvaggio dell’Aspromonte, fra le opposte valli della Fiumara Butramo e della Potis, ricoperta di alberi giganteschi, pini e querce. Si progettava di interdirvi l’accesso per paura che qualcuno potesse nuocere loro. Non immaginavano, i teorici della conservazione, che non è necessario portare una tanica di benzina ai piedi di un colosso è bruciarlo sul posto. Basta fare quel che ha fatto il vigliacco di cui sopra mettendo il fuoco lontano e confidando nell’incapacità e nei ritardi di quegli altri teorici, gli uomini che dovrebbero organizzare la prevenzione e lo spegnimento. E non sapevano nemmeno che quei colossi non dovevano essere circondati di rimboschimenti e lasciati in mezzo ai cespuglieti e ad una caotica rinnovazione. È lì che sarebbero dovuti intervenire, i conservatori, per sfoltire quell’ammasso vegetale, che è poi quello che ha trasmesso il fuoco anche ai giganti. I danni, forse, sarebbero stati mitigati.
È sconcertante che di questo disastro ambientale e culturale, in Italia, in Europa, nel mondo, non parli quasi nessuno. Fosse accaduto alle sequoie californiane, lo strepito si sarebbe sentito sino ai poli. Fosse avvenuto – come per Notre Dame – ad un grande monumento urbano, giornali e TV ci avrebbero perseguitati per giorni e giorni. Il fatto è che di quel che accade lontano dalla virtualità dei media non importa nulla a nessuno. Soprattutto se si tratta di una terra liminare – oltre che malfamata – come la Calabria. Una gran parte dell’Umanità (dal 2007 più della metà secondo una statistica dell’Università del North Carolina) vive ormai ammassata in grandi contesti urbani. E il trend è in costante crescita. In quei contesti – dove la gente può essere meglio controllata e condizionata – nulla importa se non l’artificio prodotto dalla tecnologia e la verità virtuale creata dai media. Tutto il resto non esiste. È una versione mediatica del riduzionismo ontologico: esiste solo ciò che ci mostrano la televisione ed il web. Sicché cosa può importare di una foresta come quella di Acatti? Non esisteva da viva, non esiste neanche da morta.
E poi c’è quella che io chiamo “silvofobia”, la paura generalizzata – salvo poche eccezioni – dei boschi. Che nacque con gli antichi romani, i quali pur avendo come mito fondativo una storia di foreste (Rea Silvia, Romolo e Remo allattati da una lupa), divennero però nemici dei boschi, soprattutto in età imperiale, ritenendoli ricettacoli di barbarie, contro la civiltà, che era rappresentata, invece, dalle città. Ce lo raccontano bene Robert Pogue Harrison in “Foreste, l’ombra dell’uomo”, e Simon Schama in “Paesaggio e memoria”. Li ho presenti quelli a cui propongo camminate nei boschi: c’è sempre un impegno, un bisogno di riposare, un dovere familiare; c’è sempre un “a che ora dobbiamo alzarci?”, un “quando torniamo?”, un “quanto dura?”, un “ma è difficile?”. Ormai la nostra razza è corrotta. In qualche migliaio d’anni siamo passati da nomadi a sedentari, dalle capanne ai grattacieli, dalla conoscenza della natura all’innamoramento dell’artificio.
Forse la più grande parabola di quanto ho appena detto è contenuta in un breve libricino di Jean Giono che racconta la storia vera de “L’uomo che piantava alberi”. Si chiamava Elzéard Bouffier. Era un pastore che viveva in una valle fra le Alpi francesi e la Provenza. Con il suo gregge di pecore percorreva ogni giorno decine di chilometri in una landa desolata, dalla quale l’uomo, nei secoli, aveva cancellato le foreste e con esse ogni bellezza, ogni attrattiva ogni occasione per abitarvi. Elzéard – uomo semplice ma dotato di inusuale sensibilità – portava ogni giorno nella sua sporta delle ghiande preparate per la semina, e camminando le conficcava nel terreno. Fece questo per decenni, fra la prima e la seconda guerra mondiale. Quando morì, nel 1947, in tutta la vasta area che egli aveva percorso era cresciuto un bosco di querce di decine di migliaia di esemplari. E non basta, perché la landa desolata di un tempo era divenuta un giardino profumato, il vento impetuoso che la spazzava era scomparso, ovunque si erano riformati ruscelli e fonti, e tante famiglie erano andate a viverci riedificando sulle rovine delle antiche fattorie abbandonate.
Ecco, non m’importa di convincere la gente psicotica ed infelice che ha distrutto il Bosco di Acatti a pentirsi. Vorrei solo poter raccontare anch’io, per una volta, alla gente d’Aspromonte la storia di Elzéard Bouffier, l’uomo che piantava alberi invece di bruciarli.
*Avvocato e scrittore
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