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“Gente in Aspromonte” è tornato

È forse segno imperscrutabile del destino che “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro sia tornato in libreria (ripubblicato dall’editore Garzanti nella collana Novecento, a cura e con introduzione…

Pubblicato il: 30/08/2021 – 9:53
di Mimmo Nunnari
“Gente in Aspromonte” è tornato

È forse segno imperscrutabile del destino che “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro sia tornato in libreria (ripubblicato dall’editore Garzanti nella collana Novecento, a cura e con introduzione di Aldo Maria Morace, pagine 187, euro 14) mentre la montagna santa bruciava, i demoni imbestialiti tentavano di possederla, i santi si rassegnavano e lo Stato, “la Giustizia” era assente come sempre: lo Stato di cui i calabresi, come l’Antonello del racconto di Alvaro, conoscono solo i berretti dei carabinieri, ai quali, incontrandoli sul loro cammino possono dire, come il figlio del pastore Argirò: “Finalmente, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio!”. L’incipit di “Gente in Aspromonte” è di una potenza letteraria straordinaria: universale. Ha a che fare storie, letterature e linguaggi che raccontano degli uomini della terra, in Aspromonte, come nel mondo intero, dell’esistenza grama, frutto di dominazioni e ingiustizie.

Quanto è poetico, l’inizio di “Gente in Aspromonte” racconto che si è incarnato in Alvaro scrittore che, pure, ha vergato fiumi di altre parole, in libri bellissimi: “Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro con i lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante”.
Alvaro ha, come narratore, dignità dimensioni e respiro europeo. Forse, senza le sue radici calabresi non avrebbe scritto i suoi capolavori, nei quali, in tutti, c’è il mondo, l’orizzonte vasto che raggiunge i punti cardinali che determinano il nostro orientamento nella vita. Ma l’essere calabrese, per Alvaro non significa essere scrittore regionale. Sono le metafore che contano nella letteratura e le affinità con poesia e filosofia ed è nel dominio della metafora che si distingue il talento narrativo di ampio respiro di Alvaro, a cominciare da “Gente in Aspromonte”: “In un angolo era elevato un lettuccio su due trespoli di ferro, coperto d’un candido lenzuolo sotto il quale s’indovinano le forme del pane fresco appena impastato come una teoria di mammelle tagliate a molte sante martiri. […] l’odore grave e arso del mondo che era intorno come la cenere rimasta da un incendio. Le donne dicevano: “C’è il mutolo,” come se dicessero: “è entrata una farfalla”.
Già: “l’odore grave e arso del mondo che era intorno come la cenere rimasta da un incendio”.
Chi, oggi, dopo il rogo dell’Aspromonte avrebbe scritto meglio di Alvaro sulla Grande Montagna, con quella potenza tolstoiana di scrittura che è naturale in lui. Questa nuova edizione di “Gente in Aspromonte”, recupero fedele del testo originale, ha un’introduzione di Aldo Maria Morace – il critico più autorevole dell’opera alvariana – un saggio a sé che raggomitola la matassa di tutta l’opera dello scrittore: specchio di una realtà nazionale, europea e occidentale. Gli scritti dello scrittore di San Luca non sono da catalogare nella letteratura regionale o meridionale, ma si sono nutriti dell’esperienza della giovinezza nella sua terra periferica, per poi (questo è il segreto dell’arte) prolungare le visioni dell’infanzia e dell’adolescenza. Riprende le stesse parole di Alvaro di “Memoria e fantasia” Morace, per spiegare che gli scrittori in genere hanno trovato “infiniti misteri e popoli interi di figure tra le poche persone del loro paese”, conservando il mondo originario nelle loro peregrinazioni tra i labirinti delle nuove realtà urbane. La grandezza di Alvaro, misurabile in “Gente in Aspromonte” e in altri suoi libri è nel rimanere attaccato al paese, alla roccia d’origine, identificando la sua immutabilità con la “verità vera e sicura del mondo”.
Prima che si consumi la scomparsa di ciò che per millenni è stata la natura umana, la scrittura alvariana – dice Morace – vuole percorrere il tempo arcaico della società e della Storia: una primitività di passioni, ambienti e personaggi evocata in contrapposizione alla liquidità, all’alienazione e alla solitudine anonima della nuova civiltà in cui però bisogna vivere.
Letto oggi “Gente in Aspromonte” è cronaca dell’esistenza dei nostri giorni, dove violenza, sottomissione e vendetta sono il motore e il fulcro di un universo ancestrale che, immobile da millenni, è destinato all’estinzione. Spetta a noi, siamo ancora in tempo, a cambiare il destino annunciato.

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