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Con Frammartino la Calabria in concorso a Venezia

Il film “Il buco” del regista e sceneggiatore milanese racconta dell’impresa degli speleologi che nel 1961 esplorarono Abisso del Bifurto, nel Pollino

Pubblicato il: 04/09/2021 – 15:34
Con Frammartino la Calabria  in concorso a Venezia

VENEZIA È un cinema lontano da tutto, «senza ansie, senza pressioni oggi siamo qui ma tra 48 ore siamo di nuovo lì sotto» dice il regista Michelangelo Frammartino prendendo in prestito il linguaggio del suo film “Il Buco”, oggi in concorso a Venezia 78, secondo dei cinque italiani a debuttare in Sala Grande dopo “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino. «Il mio – spiega all’Ansa – è un cinema carsico, sotterraneo. Fingo di essere a mio agio qui a Venezia in realtà non lo sono, mi sento fuori da questo e anche a sorpresa in concorso, pensavamo di andare magari in altre sezioni».
Frammartino, che ammette di essere «un po’ lentino» torna al cinema (il film, una produzione Doppio Nodo Double Bind con Rai Cinema, uscirà nel 2022 con Lucky Red) dopo 11 anni dalle Quattro volte, «nel mezzo un film non fatto, nel 2015, un lutto da elaborare».
Sul red carpet indossa tuta e caschetto come tutta la delegazione guidata dai veterani speleologi Beppe De Matteis, 86 anni, e Giulio Gècchele, 84, che nel 1961 fecero l’impresa esplorando l’allora seconda (oggi è la terza) grotta più profonda, l’Abisso del Bifurto in Calabria, 700 metri sottoterra. Con loro i non attori, i giovani speleologi come Leonardo Zaccaro e vari altri, che hanno interpretato il film, sei settimane nella cavità immensa nell’entroterra calabrese del Pollino, arrivando a toccare quota 400 (più sei settimane sopra, oltre a preparazione, montaggio, edizione). «Ci spingeva – racconta con spirito intatto Gecchele – l’idea di andare in luoghi in cui nessuno era mai andato. Fare lo speleologo è in un certo senso una scuola: sei custode del tuo compagno, sei disponibile, ti adatti come quei rari animali che abitano le grotte. Oggi tutto si impara su internet ma questa passione no e non sono molti i giovani che cominciano: è faticoso, ti strusci nel fango, è pericoloso gli aspiranti adepti via via sono sempre meno».
“Il Buco” restituisce tutto questo: «un film senza attori, senza dialoghi, senza musiche e pure senza luce!», dice Frammartino raccontando come ha presentato ai produttori il progetto. Un cinema in cui documentario e finzione non sono due linguaggi alternativi: «il confine? Ci sto ancora lavorando», risponde il regista che ha cercato speleologi che avessero voglia di esplorare per il cinema senza praticamente interpretare ma solo mettere in scena, con la guida dei veterani, quello che fu l’impresa del ’61 e di cui neppure all’epoca si parlò tanto «se non raccontarla nel nostro Gruppo – aggiunge Gecchele, all’epoca giovane della sezione piemontese, tra le più note».
Nel loro gruppo, il più giovane aveva 18 anni, anche due donne ad una delle quali, Carla, è legato un aneddoto che più è rimasto impresso a Gecchele: «la marronata che tanto aspettavamo per alimentarci lì sotto e che invece si era contaminata con la benzina, così la lanciammo sulle pareti della grotta». 
Nel “Buco” Frammartino tenta cinematograficamente un esperimento: fare un passo indietro sull’umano, lasciando emergere suoni, sensazioni, connessioni, dalla profondità della terra, «ridimensionando – spiega la sceneggiatrice Giovanna Giuliani – gli esseri umani, la luce anche è ridotta: c’è solo l’angolo illuminato dal caschetto. Un’esperienza, la speleologia, che insegna anche a stare insieme agli altri, una specie di servizio civile».

Alessandra Magliaro (ANSA)

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