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Dio creò il Cosmo a sua immagine e somiglianza. Teologia dell’abisso

Dovremmo smettere di credere che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Nella Genesi c’è un refuso: l’Altissimo Bon Signore – come lo chiamava Francesco d’Assisi – aveva in verità detto: “i…

Pubblicato il: 11/09/2021 – 7:36
di Francesco Bevilacqua *
Dio creò il Cosmo a sua immagine e somiglianza. Teologia dell’abisso

Dovremmo smettere di credere che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Nella Genesi c’è un refuso: l’Altissimo Bon Signore – come lo chiamava Francesco d’Assisi – aveva in verità detto: “il Cosmo” o forse “la Terra” (che era l’unico posto che i destinatari della Scrittura potevano sperare di conoscere all’epoca). Fu il copista (un uomo), che per vanità specista, scrisse “L’uomo”. Dovremmo cominciare ad imparare che la natura è più forte dell’uomo. E che quella che i fisici – spregiativamente – chiamano “materia” non è stata fatta per i trastulli dei tanti deliranti egoici che compongono la parte ricca e privilegiata dell’Umanità, come riteneva il geologo, paleontologo e sacerdote cattolico Pierre Teilhard de Chardin. Se così non fosse, perché preoccuparci di un uragano, di un’inondazione, di un terremoto, dei cambiamenti climatici? Siamo la specie Homo sapiens, siamo sapienti, possiamo tutto: alziamo un braccio, allora, e fermiamo il vento, le acque, i sussulti della Terra, guariamo le ferite che noi stessi abbiamo inferto al Pianeta, se davvero ne siamo capaci! Non ce ne importa nulla della Terra. Non facciamo neppure quel minimo indispensabile per mitigare la collera della materia: costruiamo case deboli, le edifichiamo dove non dovremmo, invadiamo gli alvei dei fiumi, le falde dei vulcani, le faglie geologiche, spargiamo veleni nell’atmosfera, nelle acque e sul suolo, provochiamo i cambiamenti climatici … Ed anche sui nostri corpi siamo tanto stupidi: inventiamo medicine per malattie che in molti casi sono conseguenze dirette di nostri comportamenti errati. Non ci preoccupiamo se la Terra va in malora perché c’è sempre qualcuno che ci fa sognare altri mondi da colonizzare, come gli europei fecero con le americhe, l’Africa, l’Asia, l’Oceania.
La verità è che siamo una specie tracimante di boria: crediamo nella “scienza” ma abbiamo dimenticato la “coscienza”. Eschilo ci aveva ammoniti nel “Prometeo incatenato”: “La necessità è più forte della tecnica”, laddove per “necessità” s’intende il principio basilare della natura increata (tutto accade perché deve accadere) e per “tecnica” s’intende la capacità dell’uomo di piegare la natura al suo volere. Dobbiamo tornare ad una “euristica della paura”, ha scritto il filosofo Hans Jonas ne “Il principio responsabilità” (per “euristica” s’intende un metodo scientifico, un insieme di strategie per comprendere la realtà): “Soltanto il rispetto [che consegue alla paura], rivelandoci qualcosa di sacro, cioè d’inviolabile in qualsiasi circostanza […], ci preserverà dal profanare il presente in vista del futuro, dal voler comprare quest’ultimo al prezzo del primo.”


Forse è per questo che oggi cammino in un luogo che ad un uomo senza la boria dell’Uomo mette “paura”, incute soggezione, impone rispetto. Un sentimento che però non comporta paralisi della volontà, timore di agire. Tutt’altro. Significa vivere e relazionarsi con l’altro, sia esso un uomo o una montagna, senza sentirsi superiore, senza credersi Dio. Significa dare il giusto valore alle cose: io sono un piccolo essere che riconosce la sua minorità e che, proprio per questo, ha rispetto di ciò che è infinitamente più grande: universo, natura, terra, materia.
Così è oggi, per me, nell’ombra umida e scrosciante che avvolge la valle della Fiumarella di Rossale, nelle oscure foreste faggi, aceri ed ontani di Timpone Fornelli, nella forma fallica di Pietra Campanara, nei faggi titanici di Vallone Deo Gratias, sui dirupi e le visioni dei Crivi di Mangiacaniglia. È qui che sono venuto oggi a cercare la mia euristica della paura. Che non contrasta con il desiderio di serenità. Anzi, è esattamente quell’azione vigile, quell’attenzione a non smarrirsi, quel soppesare il potere dei luoghi, quel sentirsi parte infinitesimale del Tutto, che produce, infine, la tranquillità dell’animo così cara a Seneca. Ora, in piedi sulle rupi dei Crivi, che dominano le spire della valle del Fiume Argentino, avverto di essere sull’orlo del baratro, colgo l’estetica dell’abisso: finito su infinito, mortale su immortale. Dovrebbe cogliermi il terrore, eppure sono colmo di meraviglia, ammirazione, gratitudine per tanta bellezza. Perché la natura agisce in vista di uno scopo solidale, previdente e generoso, che è la perpetuazione dell’impresa biotica sulla Terra. L’uomo, invece, agisce solo in vista di un fine utile a sé stesso, immediato ed egoistico. Per questo l’uomo è meschino: “nulla di più meschino dell’uomo cammina sulla Terra”, intuì Omero.
E quando mi si dice “ma non è l’uomo che ha sconfitto la tale malattia?” io rispondo: “ti sbagli: l’uomo ha sconfitto la malattia solo perché Dio o la natura gli hanno permesso, con l’evoluzione, di raggiungere una conoscenza adeguata”. L’uomo non è nulla senza Dio o la natura. Come si può conoscere qualcuno o qualcosa se il soggetto/oggetto di quella conoscenza non te lo consente? Perché Dio, allora, avrebbe scelto a modello l’uomo, quando aveva a disposizione oceani, montagne, foreste, deserti, fiumi, l’Universo …, il Cosmo intero?

*Avvocato e scrittore

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