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«Quell’ombra dell’esule, l’italiano più grande»

Nemmeno la figlia Stefania era a conoscenza che, il 1988, ai funerali di Giorgio Almirante, fu l’unico politico accolto da un boato e da un grido comune che inneggiava al Duce.E certo la sua stori…

Pubblicato il: 24/09/2021 – 13:31
di Mario Campanella*
«Quell’ombra dell’esule, l’italiano più grande»

Nemmeno la figlia Stefania era a conoscenza che, il 1988, ai funerali di Giorgio Almirante, fu l’unico politico accolto da un boato e da un grido comune che inneggiava al Duce.
E certo la sua storia somiglia per alcuni versi proprio a Mussolini, socialista come lui e da lui, nemmeno troppo segretamente, ammirato.
Avrebbe 88 anni oggi Benedetto Craxi detto Bettino, milanese, forse il più grande statista del dopoguerra nazionale , enigma irrisolto di un’Italia che lo ha visto morire da esule e condannato senza pietà, brandendo sulla sua effigie tutta la revanche contro la prima Repubblica.
Figlio di un avvocato messinese antifascista, Craxi è stato il più divisivo tra tutti i leader, il gigante apparso su una scena politica consumata nella contrapposizione tra due poli.
Consigliere comunale e assessore a Milano, deputato dal 1968, fu Giacomo Mancini a volerlo vice segretario nazionale del partito e, nel 76, ad imporlo al Midas, forse nella speranza di manovrarlo, ignaro che quel cavallo lanciato era Ribot.
E Mancini fu l’unico grande uomo politico socialista che Bettino emarginò. Ereditato in tracollo da De Martino, Craxi resuscitò il Psi facendolo diventare in pochi anni un faro europeo, innovativo e straordinariamente riformista.
Il 1983 divenne Presidente del consiglio, rimanendoci per quasi 4 anni. Nelle consultazioni la svolta , con l’invito al MSI che scongelava l’arco costituzionale demitiano e gli apriva un grande consenso nella destra.
Poi, la revisione del Concordato, il decreto di San Valentino con il coraggio di vincere il referendum, la lotta con Berlinguer, la notte di Sigonella, unico sussulto di dignità nazionale contro l’egemonia americana.
Forattini lo descriveva con gli stivali neri e lui, d’altro canto, non nascose mai la sua ammirazione per M.
Al giovane avvocato Vittorio Lombardi che lo andò a trovare ad Hammamet confessò di ritenere l’uomo del ventennio tra i più grandi del novecento. E si che aveva fatto costruire a sue spese un ripiano a Dongo e non nascondeva la sua irritazione per Piazzale Loreto.
Anni dopo all’uscita del Raphael, sarebbe toccata a lui la nemesi della suburra, dopo aver dimezzato inflazione e disoccupazione, presieduto il consiglio europeo, fatto entrare i post comunisti nel partito socialdemocratici europeo con l’illusione di poterli guidare.
Nel suo orizzonte c’era il presidenzialismo e la costruzione di un’area vasta, che comprendeva anche il Pci e che toccava repubblicani, socialdemocratici, liberali e anche missini come alternativa al monolite democristiano.
Nel duello impari con De Mita non c’era partita ma l’ondata di Tangentopoli era partita per distruggere il Psi, ormai giunto al 15%.
Non che non ci fossero mariuoli, ladri e corrotti nel garofano ma, certo, non erano in solitudine.
Il coraggio e la sfrontatezza lo portarono ad alzare la testa davanti ai magistrati milanesi, mentre Forlani faceva la figura di un pusillanime bavoso.
Il discorso alla Camera sui fondi usati dai partiti non ebbe opposizioni.
Il socialismo mediterraneo cui guardava, insieme alla migliore classe politica del Paese, naufragò. 
Il diabete e il dolore accompagnarono i quasi sei anni di esilio in Tunisia. Ancora oggi la sua figura è ombrosa. Le profezie sull’Europa di Maastricht incredibilmente attuali.
Il posto nella Storia, però, è ben saldo, con la speranza mai sopita che da un nuovo, immaginifico terreno possa rinascere il garofano della libertà.

*Giornalista 

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