CATANZARO Il timore che le mafie possano sfruttare al meglio le occasioni offerte dalle risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza è più che fondato. Ed in questo senso la ‘ndrangheta che rappresenta una delle organizzazioni criminali maggiormente strutturate al livello nazionale ed internazionale è tra quelle che potrebbero essere in grado di drenare maggiori benefici da questa. Incrementando il già ingente patrimonio a disposizione dei clan. Ne è un’ulteriore conferma l’allarme lanciato qualche giorno addietro dalla relazione depositata in Parlamento dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese sull’attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia (Dia) nel secondo semestre del 2020. Un periodo particolare in cui l’Italia ed il mondo intero facevano i conti con l’esposizione piena della pandemia. E proprio in quel contesto, scrivono gli analisti della Dia, sfruttando l’emergenza sanitaria «la tendenza a infiltrarsi in modo capillare nel tessuto economico e sociale “sano,” si sarebbe dunque ulteriormente evidenziata» da parte della ‘ndrangheta.
Un aspetto legato alla circostanza ben evidenziata nella relazione che descrivendo l’organizzazione criminale di matrice calabrese ne tratteggia «la sua vocazione imprenditoriale favorita dalle ingenti risorse economiche di cui dispone» grazie alla sua capacità di diversificare le proprie attività illecite. Tra cui spicca, oltre il narcotraffico internazionale, ovviamente la capacità di «infiltrazione negli appalti pubblici».
E che la ‘ndrangheta sia in grado di “approfittare del momento” lo descrivono gli uomini della Direzione investigativa antimafia: «Le cosche calabresi danno continuamente prova di saper intercettare le opportunità offerte dai cambiamenti socio-economici rimodulando con grande duttilità gli investimenti secondo una logica di massimizzazione dei profitti attraverso l’infezione di compagini societarie sane».
E nella relazione emergono anche le occasioni offerte dal momento delicato che sta vivendo l’economia nel pieno della crisi pandemica.
In primis la mancanza di liquidità, accusata dagli imprenditori a causa del crollo dei consumi seguiti all’emergenza Coronavirus che facilita la possibilità di «poter rilevare a buon mercato imprese in difficoltà». E poi c’è la grande torta costituita dai fondi messi a disposizione per sostenere l’economia in ginocchio per la pandemia. Si tratta sia delle somme attivate dal Governo per aiutare le imprese in difficoltà, ma anche e soprattutto l’arrivo dell’enorme mole di finanziamenti dall’Europa per realizzare centinaia di interventi in Italia. Su quest’ultimo punto gli stessi analisti della Dia rilevano da parte dei clan «attenzioni operative verso i fondi comunitari che giungeranno a breve». Leggasi le somme in pancia al Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Ma nel report emerge anche il livello di contaminazione delle imprese che si avvicinano agli appalti pubblici in Calabria. Ebbene che è la regione nettamente in testa per numero di interdittive antimafia. In particolare nel 2020 nella Banca dati nazionale unica della documentazione antimafia (BDNA) sono state rilevate ben 194 comunicazioni di cui 86 solo nel secondo semestre dell’anno della pandemia. Un numero che rappresenta ben oltre un quarto (25,9%) delle interdittive antimafia emesse nel corso dell’intero anno in Italia.
Un allarme che nella relazione emerge a chiare lettere. «In un periodo che vede gli effetti della pandemia da Covid-19 incidere trasversalmente su tutti i campi economici e sociali – si legge nella relazione delle attività semestrali della Dia – le cosche calabresi potrebbero intercettare i vantaggi e approfittare delle opportunità offerte proprio dalle ripercussioni originate dall’emergenza sanitaria, diversificando gli investimenti secondo la logica della massimizzazione dei profitti e orientandoli verso contesti in forte sofferenza finanziaria». E sulla capacità dimostrata dai clan calabresi di avvicinare, dunque corrompere, gli apparati dello Stato per accaparrarsi soldi pubblici nella relazione non si usano giri di parole. «La ‘ndrangheta – scrivono gli analisti della Distrettuale investigativa antimafia – esprime, infatti, un sempre più elevato livello di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale, ricavandone indebiti vantaggi nella concessione di appalti e commesse pubbliche».
Da qui i timori percepiti dallo stesso premier Mario Draghi nella gestione appunto di quella enorme massa di risorse che arriveranno in Italia grazie al piano della Next generation Eu. Tanto che nel messaggio inviato dal presidente del Consiglio al Law Enforcement Forum promosso a Roma dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza insieme ad Europol definisce l’arrivo di quei fondi «una grande sfida per tutti i Paesi europei e in particolare per l’Italia». Ed il riferimento è diretto proprio alla capacità di prevenire infiltrazioni della malavita organizzata nella gestione delle risorse. «La credibilità delle nostre istituzioni ed il futuro della nostra economia – afferma Draghi nel suo messaggio – dipendono dalla capacità di spendere bene e con onestà questi fondi e l’Italia è determinata a prevenire e reprimere qualsiasi tentativo di frodi e infiltrazioni criminali a tutela dei cittadini, delle imprese e dell’Ue».
Per evitare rischi di infiltrazioni mafiose negli appalti generati dai fondi del Next Generation Eu, il Piano del governo traccia un metodo che in qualche modo però ricalca il passato. Nello specifico il Pnrr chiede l’applicazione puntuale dei protocolli di legalità e delle verifiche antimafia. C’è anche tra le misure una, dedicata al potenziamento del database di tutti i contratti tenuti dall’Autorità nazionale anticorruzione (da compiere con atti organizzativi dell’Autorità). Azioni a cui si affianca indirettamente, con gli investimenti previsti per potenziare la macchina amministrativa e della magistratura sull’intero territorio, un innalzamento del sistema di controllo proprio grazie al rafforzamento della filiera. Un modo come un altro per sostenere che il governo ritiene più che valido il sistema attualmente in essere previsto dalla legislatura in vigore. Seguendo l’assioma che soltanto potenziando, in termini di uomini e mezzi, il sistema di controllo – burocratico e giudiziario-investigativo – le contromisure, per prevenire quelle infiltrazioni nella gestione degli appalti milionari possano reggere all’impatto.
Anche se, di converso, nel Piano c’è un certo “ammorbidimento” legato alle intenzioni più volte richiamate dal premier e da autorevoli componenti del Governo di semplificare le procedure di affidamento e di realizzazione degli appalti pubblici. Tra queste semplificazioni è previsto l’estensione delle procedure di deroga al Decreto legge 76/2020 che riguarda anche le certificazioni antimafia per gli appalti pubblici.
Ma le preoccupazioni per un innalzamento del condizionamento mafioso nel sistema dell’aggiudicazione degli appalti degli interventi previsti dal Pnrr sono altissime. Oltre che dalla Dia, i segnali di allarme arrivano di recente anche da altre istituzioni pubbliche come l’Anac e la Guardia di finanza. Nelle rispettive relazioni emergono numeri in crescente aumento nell’anno della pandemia. Infatti l’Autorità nazionale anticorruzione rileva che nel 2020 il numero di segnalazioni di fatti illeciti legati appunto a fenomeni di corruzione nella pubblica amministrazione si è impennato: da 125 del 2019 è passato a 622 dell’anno appena trascorso. Dunque 5 volte in più di quanto avvenuto nell’anno pre-covid. Un segnale chiaro che le organizzazioni criminali – le più efficaci nel sistema corruttela della Pubblica amministrazione – hanno decisamente approfittato del momento pandemico. Nella mappatura poi delle vicende di corruzione stilato dall’Anac emerge che l’area più soggetta al fenomeno è quella del Centro-Sud e delle Isole.
Ora considerando che una fetta importante di investimenti programmati dal Pnrr riguarda queste aree tra cui appunto la Calabria. Rimane lecito comprendere che il rischio che i clan possano approfittare dell’occasione sia decisamente alto. Basti considerare che dei 62 miliardi di euro del Piano dedicati ad investimenti pubblici oltre la metà esattamente il 56% si concentra in questa parte del Paese.
Nella relazione della Guardia di finanza pubblicata quest’estate e relativa all’anno della pandemia ha messo in luce appalti irregolari per un valore complessivo di circa 5 miliardi di euro, mentre sono state 3.525 le persone denunciate per reati legati alla corruzione, ad appalti irregolari e altri reati contro la Pubblica amministrazione. Ottenendo il sequestro di beni per 284 milioni di euro.
Sul fronte del contrasto alle mafie nell’anno della pandemia, le fiamme gialle hanno provveduto ad eseguire sequestri per 1,5 miliardi e ne ha proposto il sequestro per ulteriori 2,2. Numeri che incrociandoli dimostrano l’alta capacità dei clan di saper intercettare e far fruttare le risorse provenienti dai finanziamenti pubblici. Un metodo di corruzione e di infiltrazione nel meccanismo degli appalti “collaudato” che potrebbe essere messo ancor più a frutto con l’arrivo delle risorse del Pnrr.
«Se ognuno svolgerà il suo compito e adotterà le contromisure già in vigore, i rischi di infiltrazione mafiose negli appalti e nell’economia sana, si ridurranno». È in sintesi il pensiero di Vittorio Mete, calabrese doc è infatti nato a Lamezia Terme, è docente di Sociologia politica al dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli studi di Firenze dove insegna “Reti criminali tra locale e globale”. Nella sua attività di ricerca ha dedicato gran parte di attenzione ai fenomeni mafiosi e all’antimafia, in particolare all’infiltrazione mafiosa nell’economia e allo studio delle cosiddette aree grigie. È membro di diversi comitati scientifici sul contrasto alla criminalità organizzata ed è componente scientifico della collana “Contrappunti” oltre che dell’associazione “Avviso Pubblico”. Con il libro “Fuori dal Comune” in tema di scioglimento delle amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose ha vinto nel 2009 il premio “Giancarlo Siani”.
Professore, la crisi pandemica ha colpito anche le imprese gestite dai clan in Calabria e con quali effetti?
«È difficile dare una risposta a questa domanda. Forse gli inquirenti ne sanno di più, ma per ora i non “addetti ai lavori” non hanno elementi concreti per dare un giudizio, se non qualche aneddoto che però lascia il tempo che trova. Ciò detto, possiamo pensare che i gruppi criminali che gestiscono, direttamente o indirettamente, delle attività economiche abbiano vissuto le stesse difficoltà con le quali si sono dovuti confrontare tutti gli altri imprenditori. Un bar, mafioso o non mafioso, durante il lockdown dello scorso anno o le zone rosse dei mesi scorsi sono comunque rimasti chiusi. La merce è scaduta a tutti; i clienti non li ha visti nessuno. E così gli alberghi, le piscine, le imprese di costruzioni, i villaggi turistici ecc. Dunque, non vedo grandi differenze».
La mancanza di liquidità tra imprese a seguito dei prolungati lockdown e della conseguente crisi economica ha messo nelle condizioni le aziende “sane” di cadere maggiormente nelle mani delle cosche?
«Anche qui non saprei dire con precisione, bisognerebbe parlare sulla base di evidenze empiriche che al momento mancano o sono del tutto frammentarie. Intanto, però, bisogna ricordare che l’usura non è un monopolio dei gruppi mafiosi. Quindi, se qualche azienda non è riuscita a sopravvivere con gli aiuti che lo Stato ha messo a disposizione e ha pensato di galleggiare con soldi altrui, non è detto che si sia rivolta ai mafiosi. In linea di principio, è probabile che qualche azienda abbia fatto ricorso all’aiuto interessato dei gruppi criminali, ma non mi convince l’idea che la pandemia ha avuto l’effetto di svendere l’economia legale ai mafiosi».
La presenza massiccia della ‘ndrangheta in Calabria può risultare un ostacolo per la buona riuscita degli interventi previsti dal Pnrr?
«La ‘ndrangheta, come altre forme di illegalità che magari fanno meno clamore ma non per questo sono meno perniciose, è un ostacolo per tutto. Lo sarà senz’altro anche per la gestione del Pnrr. Però bisogna distinguere. Questo, mi permetta un inciso, è un buon principio al quale attenersi: distinguere sempre. I gruppi criminali non sono tutti uguali, non fanno tutti le stesse cose, non tutti sono ricchi o sono dotati di capacità imprenditoriali. Quindi, nella realizzazione del Pnrr, potremmo avere situazioni molto differenziate: per zone, per settori economici, per tipo di intervento. Difficile generalizzare».
Secondo lei come i clan si stanno preparando per drenare fondi dalle cospicue risorse provenienti dal Recovery plan?
«Partiamo dal presupposto che, per accaparrarsi ingenti risorse pubbliche, è necessario che si crei una rete criminale. Da soli, i criminali di professione non vanno molto lontano. Dunque, se qualcosa stanno facendo, probabilmente stanno lavorando alla creazione o alla “manutenzione” di questa rete. Le ricerche sull’argomento mostrano, tuttavia, che non sempre i mafiosi sono al centro di queste reti. Possono essere marginali, possono fornire solo alcuni servizi illegali ad altri soggetti, possono guadagnare meno di altri e rischiare e rimetterci di più, ad un certo punto possono pure essere espulsi. Insomma, anche qui invito a distinguere a non ragionare in maniera stereotipata».
C’è un modo per evitare che queste somme finiscano per arricchire i clan?
«Un modo no. Tanti modi sì. Ognuno dovrebbe fare il proprio lavoro onestamente. Laddove c’è disonestà, alligna la criminalità organizzata. Parlo in primo luogo dello Stato e delle sue Istituzioni e articolazioni che le leggi sono tenuti a rispettare ed applicare. Ma, evidentemente, la moralità e l’onestà è richiesta a tutti. Senza di queste, mafia o non mafia, siamo nei guai».
Ritiene a questo proposito che i meccanismi previsti dal Governo per eliminare le infiltrazioni mafiose siano sufficienti?
«A causa della tragica presenza delle mafie nel nostro Paese, che ha lasciato per terra migliaia di morti ammazzati, lo Stato ha messo in piedi un apparato di contrasto formidabile. Gli strumenti che abbiamo per reprimere le associazioni mafiose sono davvero molto efficaci: legislazione speciale, magistratura specializzata, corpi di polizia dedicati e moltissime altre cose ancora. Certo, non tutto funziona alla perfezione, basti pensare a quel che succede in tema di beni confiscati. Però le contromisure alle ingerenze mafiose esistono già. Non so cosa ha previsto di ulteriore il Governo, ma direi che gli apparati di contrasto non devono aspettare qualche decreto o provvedimento miracoloso per (continuare a) fare il loro mestiere».
Le semplificazioni delle procedure che sono il cuore pulsante delle riforme volute dall’esecutivo per rispondere alle richieste della Commissione europea, potrebbero viceversa favorire le organizzazioni criminali?
«A tutti piace la parola “semplificazione”. Nessuno vuole “complicazioni”. Bisogna però vedere, al di là degli slogan, a quali controlli si rinuncia per ridurre i passaggi e i tempi di realizzazione delle opere. Se sono controlli che servono a tenere fuori i malintenzionati, siano essi mafiosi o meno, allora semplificare, alla lunga, significa complicare, perché prima o poi i nodi vengono al pettine».
Come contemperare l’esigenza di velocizzare gli iter amministrativi nelle assegnazioni degli appalti pubblici ed evitare l’abbassamento della guardia nei confronti delle infiltrazioni mafiose nel sistema degli appalti?
«Per accelerare le procedure si potrebbe agire su un altro versante: anziché rinunciare ai controlli, si potrebbero dotare di più risorse, umane e finanziarie, i soggetti deputati ai controlli. Non penso che faremmo brutta figura con l’Europa». (r.desanto@corrierecal.it)
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