A ogni campagna elettorale si parla, in maniera marginale e senza costrutto, di come riformare la burocrazia regionale. Non che ci sia qualcuno che si sveni o perdi il sonno, ma l’argomento comunque è trattato. Oggi la parola “burocrazia” è stata sostituita dal termine “management”. Un modo elegante per non distrarsi da altre spinte elettoralistiche. Nel susseguirsi degli schieramenti che si sono mostrati in questi ultimi lustri, alternandosi alla guida della Regione Calabria, i richiami all’esigenza di dotarsi di una struttura dirigenziale forte, competente e agile, non sono mancati. Si può iniziare dai direttori dei dipartimenti, le figure apicali, ma anche dagli stessi assessori secondo una filiera lunga, e giù per la scala.
Ci fu chi lo fece in modo prioritario, mettendo in giunta i cosiddetti “tecnici”, fu il presidente Giuseppe Chiaravalloti che, nell’agosto 2001, formò un esecutivo che a maggioranza contava assessori esterni. Per la prima volta l’Istituzione utilizzò, in forma così massiccia, la presenza di “tecnici” come assessori.
Entrano nelle stanze dei bottoni di via Massara, dopo aver escluso Giovanni Filocamo, Aurelio Misiti (Lavori pubblici), che venne riconfermato, Paolo Bonaccorsi (Urbanistica), Giovanni Luzzo (Personale), Mario Lucifero (Agricoltura), Emanuele Emmanuele (Vicario), Massimo Bagarani (Bilancio) e Valerio Rossi (Sanità). Quest’ultimo dormiva nel Seminario teologico regionale San Pio X di Catanzaro. Completavano la giunta i politici Francescantonio Stillitani, Dionisio Gallo, Giuseppe Gentile, Saverio Zavettieri e Giuseppe Scopelliti. Quell’esperienza amministrativa fallì e si varò il Chiaravalloti ter (8 agosto 2002), confermando come sterni solo Luzzo (alla Sanità) e Misiti.
Quindi niente di nuovo se si dovesse riproporre la soluzione esterna, d’altronde applicata da Mario Oliverio nel 2015.
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