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«Enrico Letta e il Pd: ‘Uno, nessuno e centomila’»

Ormai, parafrasando Andreotti, a pensar male del Pd non si fa peccato, perché, pasticcio dopo pasticcio, s’indovina sempre.  Enrico Letta può sfegatarsi a indicare gli insegnamenti di Jacques Delo…

Pubblicato il: 29/09/2021 – 13:50
di Romano Pitaro
«Enrico Letta e il Pd: ‘Uno, nessuno e centomila’»

Ormai, parafrasando Andreotti, a pensar male del Pd non si fa peccato, perché, pasticcio dopo pasticcio, s’indovina sempre.  Enrico Letta può sfegatarsi a indicare gli insegnamenti di Jacques Delors e l’Europa comunità di destino, la reputazione come valore e le battaglie identitarie o ad invocare (pensate!) un “partito dell’intelligenza collettiva, predisposto all’ascolto e alla condivisione delle decisioni”. Può metterci tutta l’anima e i cacciavite dell’universo mondo con l’intento di spingere il Pd ad adoperarsi  “per ricostruire un’Italia più sostenibile, più incisiva, più giusta”. Ma la realtà del partito che da marzo è stato chiamato a guidare,  è ben altra. E’ fatta di gironi correntizi che lo scarnificano e lo sclerotizzano, refrattari al rischio dell’autodistruzione. Grumi tossici, per il Pd, la politica e la democrazia, che si attivano, soprattutto nelle campagne elettorali,  per potenziare correnti  che in teoria dovrebbero rappresentative aree culturali,  ma in pratica sono espressione di assetti di influenza autoreferenziali che collidono  fra  loro e  che, però,  si compattano ogniqualvolta c’è da fermare ogni innovazione che potrebbe scalfire la loro trama di potere. Non si muovono per battere le paure del scolo XXI, ma per aggiustare il tatticismo esasperato dissociato dalla benché minima strategia che, nell’infinita transizione politica italiana,  li contraddistingue e che tradisce la convinzione che il Pd abbia esaurito la carica propellente e che, prima o poi, occorrerà, per salvare il salvabile, chiuderlo e riposizionarlo in un’aggregazione liberaldemocratica di cui al momento non s’intravede né il progetto né il federatore. Ciò che, ultimo ma non per gravità, colpisce di questo partito, segno che ogni corrente agisce per conto proprio, è la discesa, in terra di Calabra, di esponenti del Pd di rango nazionale (anche con rilevanti  funzioni di governo),  per sponsorizzare questo o quel candidato alle elezioni per la Regione del 3-4 ottobre, quasi che gli altri candidati appartenessero ad un altro partito. Osservate bene: contrariamente a quanto fanno gli altri esponenti nazionali dei partiti in lizza (Tajani, Salvini, Meloni, Gelmini, Toti,  ecc…), quelli del Pd non si limitano a dar man forte alla candidata Presidente del centrosinistra, ma danno indicazione di voto per i singoli candidati che aderiscono  alla loro fazione.  Roba da matti, se il fenomeno degenerativo è visto con gli occhi di chi pensa al Pd come a un partito riformista dalle nobili radici che agisce unitariamente per affrontare le sfide storiche del Paese. Anzi, roba che, dispiegandosi tra l’altro con scarso riguardo per le funzioni istituzionali e di governo  che pro tempore si ricoprono e spregio d’ogni istanza politica  affrancata da interessi particolari e contingenti  e persino dal doveroso fair play che impone lealtà nei comportamenti  e  il rispetto degli altri (in questo caso i compagni di squadra), conferma l’ottimo stato di salute del correntismo democrat e il suo controllo incontrastato del partito. Tutto ciò, nonostante le denunce abrasive  di Zingaretti, che a marzo  s’è dimesso non per un crollo psicofisico,  ma perché stritolato da correnti “che pensano solo alle poltrone” e sono concentrate non per affrontare  le  competizioni elettorali nella speranza di vincerle, ma sulla ripartizione degli incarichi e degli spazi d’azione spettanti ai perdenti.  E nonostante Letta, la cui impronta almeno fin qui  s’intuisce labile e vaporosa, auspichi un Pd “progressista nei valori, riformista nei metodi e radicale nei comportamenti”. Quando mai! Il rischio, ictu oculi, soprattutto nel “caso” Calabria, dove il Pd è commissariato da tre anni ed eccelle per  errori grossolani, sciatteria culturale e impotenza nel tenere unita persino l’area di riferimento, che infatti esprime per il voto del 3-4 ottobre tre candidati alla Presidenza della Regione, è che Letta sia il dottor Jekyll a copertura dell’impaludamento  gestionale  a cui le correnti non rinunciano. L’agnello sacrificale  dal forbito eloquio che non dirada il caos e non incide sull’ambivalenza di un partito che è uno, nessuno e centomila. E che, anziché opporsi, a testa alta e con coraggio,  alle “quattro P” (il copyright è di Filippo Andreatta): povertà, privilegi, pregiudizi e paure che gravano come un macigno su gran parte del Mezzogiorno e della Calabria,  coltiva  spasmodicamente la bolla correntizia sotto il cui vestito, oltre alle magagne e alla preoccupazione di conservare lo status quo intrappolato nell’isolamento politico e nell’inconcludenza, c’è davvero poco.

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