Osservo il mio vecchio certificato elettorale. Diciotto caselle con diciotto timbri. Il primo è del 2001, l’ultimo del 2020 (per le recenti regionali ho dovuto rinnovarlo). Il conto è semplice: in diciannove anni ho votato diciotto volte. E mancano due o tre consultazioni, dalle quali mi sono astenuto, per via di quel sano desiderio di libertà che, di tanto in tanto, riesce a superare i miei sensi di colpa. Dunque, sono stato chiamato ad esprimere il voto più di una volta l’anno, in media. “Il trionfo della democrazia!”, direbbe qualcuno. E invece a me pare il trionfo di una truffa: venderci l’illusione che il nostro voto produca cambiamenti, lasciando invece le cose esattamente come stavano prima, sempre.
Partiti e candidati offrono il loro complice contributo al prodursi di quest’illusione collettiva. Nessuno avverte che la democrazia italiana, da almeno trent’anni, non è capace di produrre, attraverso le elezioni, cambiamenti significativi, nonostante l’elettorato abbia fatto il suo dovere, concedendo la vittoria, proprio attraverso il voto, ora all’uno partito, ora all’altro e perfino a diversi outsiders. Senza contare l’assoluta prevalenza di banchieri, economisti e giuristi con mandato a tenere sotto controllo le finanze statali, nel ruolo di capi del governo: Amato, Ciampi, Dini, Prodi, Monti, Draghi. Quasi che l’Italia sia ormai divenuta un paese senza sovranità, da tenere sotto stretta tutela.
Parliamo del caso Calabria. Fate attenzione: il lessico della propaganda elettorale è stato dominato costantemente dalla parola magica “cambiamento”, nella quale ha sempre riposto fiducia l’elettorato, fluttuando speranzoso da una parte all’altra: da Chiaravalloti a Loriero, da Loiero a Scopelliti, da Scopelliti ad Oliverio, da Oliverio a Santelli. Senza, però, che questo spostamento abbia prodotto nulla di significativo! Tutt’altro.
È questa la grande truffa del chiamare tanto spesso la gente alle urne. E non c’è da meravigliarsi se in Calabria (e non solo qui) la gente è stufa di andare a votare: ha compreso che con il voto è quasi impossibile produrre un cambiamento reale. L’astensione allora – checché ne dicano i moralisti -, piuttosto che una forma di qualunquismo, mancanza di coraggio, irresponsabilità è, invece, espressione di libertà: libertà dall’obbligo di aderire forzatamente ad un discorso politico che non è il nostro; libertà di non foraggiare questo o quel potentato; libertà di non essere complici della truffa ordita contro di noi.
«La democrazia non è soltanto metodo – scriveva Norberto Bobbio -, ma è anche un ideale: è l’ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare […] Sono molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a poco a poco […] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili degenerazioni».
*Avvocato e scrittore
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