ROSARNO La stagliata Sant’Antonio – nella quale ricadono piazza Valarioti, il monumento “A tutte le vittime della violenza mafiosa”, i giardinetti alberati e le altre strutture culturali e sportive – è demanio che appartiene ai Rosarnesi.
Lo ha riaffermato, il 29 settembre 2021, la sentenza emessa dal Commissariato “Usi Civici” della Calabria che ha dichiarato ricadenti nell’antica stagliata S. Antonio, e quindi gravate da vincolo di usi civici, le particelle riferite a strutture e monumenti citati, ordinandone la reintegra in favore del Comune di Rosarno. «La sentenza – commenta Giuseppe Lavorato, ex sindaco della città – ripercorre una vicenda che, per la sua rilevanza storica, economica, sociale e morale meriterebbe un libro tutto suo».
La storia a cui fa cenno l’ex sindaco «parte dal 1505, attraversa l’epoca feudale, l’eversione della feudalità, i secoli successivi durante i quali i veri banditi, più pericolosi degli sbandati che si nascondevano nei boschi e nelle montagne, furono i signorotti locali che, sfruttando la vastissima ignoranza esistente tra i ceti poveri e meno abbienti, per ingordigia e con l’imbroglio si appropriarono di grande parte del demanio pubblico».
«In Calabria vera – continua Lavorato – uno scritto del primo decennio del novecento, un brillante avvocato del foro di Palmi, Francesco Arcà, che negli anni successivi sarebbe stato eletto deputato socialista, documentò come, solo in provincia di Reggio Calabria, risultavano usurpati ben 55mila ettari di demanio pubblico. Tra i quali grande parte dei boschi, degli alvei dei fiumi e dei torrenti che, ridotti a rigagnoli , non possono più contenere l’acqua delle piene e diventano letali per il territorio e per tante povere vite umane. Ed aggiunse che i governanti nazionali e gli amministratori locali hanno il primario dovere di impedire la rapina del demanio e di battersi per recupero dell’immenso patrimonio pubblico sottratto, nel corso dei secoli, al legittimo possesso ed uso delle popolazioni. Purtroppo, nel secolo trascorso dalla denuncia di Arcà, la rapina del patrimonio pubblico è continuata con sempre maggiore ed insaziabile ingordigia. In particolare, per negligenze e responsabilità dei Consorzi di bonifica nel tempo in cui furono gestiti dai più ricchi possidenti terrieri».
Gli amministratori di sinistra, che guidarono il Comune di Rosarno dal 1994, «a fronte di un contenzioso che metteva in pericolo anche il bilancio dell’ente» decisero allora di presentare un ricorso «ricordando il monito di Arcà».
«Decidemmo – ricorda Lavorato – di presentare ricorso in riassunzione della causa, che era stata cancellata dal ruolo nel 92, promossa nel 65 innanzi al Commissario Regionale per gli usi civici dai cittadini rosarnesi Cosimo Brilli, Eugenio Latorre e Domenico Mastruzzo i quali, con alto senso civico, avevano chiesto che venisse dichiarata la demanialità del terreno denominato “Sant’Antonio”.
Quando gli amministratori andarono al Commissariato “Usi civici” per visionare tutti gli atti del procedimento si accorsero però che «le amministrazioni che si erano susseguite fino al ‘92 non avevano mai presenziato a nessuna delle oltre venti udienze convocate per discutere un contenzioso tanto importante per gli interessi e le finanze del Comune».
Il ricorso servì dunque a «spezzare quell’inerzia».
«Riassunto il vecchio giudizio, nell’agosto 2003, gli “Usi civici” di Catanzaro emisero la sentenza che, confermando la minuziosa ricostruzione presentata dall’avvocato Giuseppe Morabito, corroborata dalla documentazione tecnica e fotografica ricostruita dall’ingegnere Giuseppe Amoroso, attribuisce al demanio del comune di Rosarno la località Sant’Antonio, sulla quale sorgono Piazza Valarioti e dintorni» spiega sempre l’allora sindaco.
«Con una serie di articoli pubblicati il 29 agosto e il 21 settembre 2003, il Quotidiano titolò a caratteri cubitali “Un fatto storico, uno dei fatti più importanti dell’ultimo mezzo secolo di vita cittadina, perché sancisce la proprietà del Comune su una vasta area sulla quale sono sorti diversi contenziosi con privati cittadini”.
«Ma l’iter giudiziario non si concluse perché , a seguito di reclamo del privato , l’11 novembre 2004, la Corte d’Appello di Roma, ritenendo necessario un approfondimento istruttorio, rimise gli atti al Commissario Regionale per l’espletamento di una nuova consulenza tecnica di ufficio». Dopo 17 anni anche i nuovi consulenti tecnici di ufficio hanno confermato la sentenza del 2003. «Pertanto – conclude Lavorato – la sentenza del 29 settembre ultimo scorso, a mio avviso, meriterebbe un titolo con caratteri ancora più grandi». (redazione@corrierecal.it)
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