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inchiesta “mala pigna”

L’azienda confiscata usata per trafficare rifiuti e i “colletti bianchi” conniventi. «Qua comanda Delfino»

Gli amministratori lasciavano la gestione all’imprenditore vicino al clan. Prelevate somme per 700mila euro. Traffici milionari in Tunisia, Iran e Cina

Pubblicato il: 20/10/2021 – 6:49
di Francesco Donnici
L’azienda confiscata usata per trafficare rifiuti e i “colletti bianchi” conniventi. «Qua comanda Delfino»

REGGIO CALABRIA «I fratelli Delfino sono due vicini ai Piromalli che trafficavano droga e avevano questo auto-demolizione queste cose qui». La consapevolezza di Andrea Mantella, ex boss ed oggi tra i principali collaboratori di giustizia nel processo “Rinascita-Scott” pare dissimile da quella di professionisti e “colletti bianchi” che nel tempo hanno avuto a che fare con queste figure. Consapevolezza insufficiente – pare, sempre secondo le risultanze investigative dell’inchiesta “Mala pigna” della Dda di Reggio Calabria – a prenderne le distanze evitando così di favorire un diffuso sistema di illeciti imperniato sul traffico di rifiuti. L’inchiesta parte nel 2017 e si concretizza nella richiesta cautelare depositata dalla procura guidata da Giovanni Bombardieri a giugno 2020 sulla base delle indagini svolte dai carabinieri forestali del Nipaaf. Il blitz scatta nella notte tra il 18 e il 19 ottobre 2021 e porta all’esecuzione di 29 misure cautelari. Quello che nasce come un accertamento su illeciti ambientali permette di far luce «sulla evoluzione attuale dei “Piromalli”, storico sodalizio di matrice ’ndranghetista attivo ed operativo in Gioia Tauro». Al centro, le figure di Rocco Delfino, classe 62 e del fratello Giovanni, classe 57.
Il sistema creato dalla famiglia Delfino, in particolare da Rocco, è incentrato sul guadagno illecito derivante dal controllo della filiera di rifiuti ferrosi e metallici. Business di primo piano che gli indagati – come evidenziato dal colonnello del Nipaaf Lupini – riescono a massimizzare «fino ad arrivare a trattare con le multinazionali» del settore. Strumenti principali in mano a Delfino sono le ditte “Ecoservizi Srl”, gravata da un’interdittiva antimafia e sospesa dall’albo dei gestori ambientali dal 2016 e soprattutto la “Delfino Srl” costituita nel 1992, in confisca di prevenzione divenuta definitiva nel 2007 e in gestione all’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati (Ansbc).
Una delle aberrazioni messe in luce dall’inchiesta è legata proprio a questa ditta che, nonostante il gravame costituito dalla misura preventiva reale, «continuava ad essere gestita dallo stesso Rocco Delfino detto “u rizzu” e dal fratello Giovanni come se fosse di loro proprietà».

La confisca della “Delfino Srl”: in 6 anni un capitale sociale di 3 miliardi di lire

Subentra qui il «contributo consapevole e incondizionato» degli amministratori giudiziari del bene e in seguito coadiutori: il commercialista Giuseppe Antonio Nucara, classe 64 e l’avvocato Alessio Antonio Gangemi, classe 71 entrambi accusati di concorso esterno in associazione mafiosa.
In particolare, scrive il gip Vincenza Bellini: «Si adoperavano in ogni modo al fine di consentire all’ex sorvegliato speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, Giovanni Delfino, di continuare a gestire la società». La ditta per “autodemolizione e commercio di rottami metallici” con sede a Gioia Tauro risultava sequestrata con decreto del Tribunale di Reggio del settembre 2002. In seguito, era passata in confisca con decreto (numero 12/07), questa volta della “sezione misure di prevenzione” della Corte di Appello di Reggio Calabria, il 16 febbraio 2007. La confisca era stata disposta a seguito dell’analisi di un vertiginoso flusso di denaro che, in soli sei anni, aveva prodotto un capitale sociale di circa tre miliardi delle vecchie lire (a fronte dei novanta milioni di capitale iniziale). Per alleggerire la misura, confidando in un trattamento più benevolo dei giudici catanzaresi, si sarebbe attivato anche l’avvocato Giancarlo Pittelli (tra gli odierni indagati) attraverso quello che l’ex giudice Marco Petrini conferma come reale iniziativa corruttiva – comunque non andata a buon fine – in favore di Rocco Delfino.
Numerosi sono gli accertamenti che dimostrano come i Delfino abbiano continuato a svolgere l’attività nella società proprio grazie ai due pubblici ufficiali consapevoli, a detta della procura, «dello spessore criminale» del “proposto” (e del fratello) al quale consentivano di «continuare ad esercitare il controllo mafioso» in quel settore.
Un rapporto «sinergico» come si evince dalle conversazioni intercettate dalla pg già nel 2013 – e finite in un fascicolo in seguito archiviato (per poi essere ripreso a novembre 2019). Già nella prima informativa, le conversazioni venivano definite «sintomatiche della piena comunanza di interessi nonché della posizione e del ruolo rivestito dai tre». In altri termini, gli amministratori si premuravano che tutto filasse liscio. Per questo, si mettevano in contatto con Giovanni Delfino – anche per tramite di alcuni suoi dipendenti – riconoscendolo come «dominus della società» deputato a segnalare eventuali problematiche. Sinergia preservata negli anni, come dimostrato anche dalle immagini acquisite dai carabinieri del Nipaaf che descrivono una sorta di ruotine quotidiana di Giovanni Delfino e figli, impiegati nel bene confiscato fino al periodo più recente.

I prelievi ordinati da Giovanni Delfino: 700mila euro in un anno e mezzo

Gli amministratori giudiziari, coadiutori da metà del 2018, non permettevano solo la gestione occulta della società confiscata. Da una disamina degli estratti conto della “Delfino Srl”, ad esempio, emergono prelievi operati – e mai autorizzati dall’Ansbc – da Nucara e Gangemi, di ingenti somme di denaro per un ammontare di circa 700mila euro nel periodo che va da gennaio 2018 a maggio 2019 «così consentendo ai Delfino di appropriarsene al fine di utilizzarli per le proprie necessità sia relative alle attività di traffico illecito di rifiuti, sia per ulteriori incombenze». In una conversazione risalente a marzo 2019 Delfino dice a Nucara (che in quel momento si trova nella filiale della banca): «Però allora fate…fate una cosa, così durante la settimana non arrivate più, non vi muovete. Eh arrivate a otto va bene?» Delfino dà specifiche coordinate sull’importo del prelievo in prima persona o tramite una dipendente, come sarà qualche giorno dopo. Nonostante la rassicurazione fatta da Delfino a Nucara, Gangemi viene incaricato di effettuare un nuovo prelievo provocando l’insofferenza del collega: «Ma quanto hai prelevato?» «Tre […] si vede che servivano eh», la coda della conversazione tra i due.

La falsificazione di documenti contabili ed estratti conto

In qualità di coadiutori «si adoperavano per falsificare le scritture contabili e le fatture relative ai rapporti con ditte terze» sempre per aggirare i controlli dell’agenzia nazionale che, nel giugno 2019, a seguito di una nota riservata della Pg, aveva chiesto un rendiconto dell’attività svolta e gli estratti conto del primo semestre di quell’anno.
A supportarli in questa attività era la commercialista dei Delfino, Deborah Cannizzaro, classe 68, ma rilevano in tal senso anche le figure di alcuni professionisti quali l’ingegner Giuseppe Tomaselli, classe 63, il consulente ambientale Elia Gullo, classe 81 e alcuni dipendenti della “Delfino Srl”, Concetta Zappone classe 73 e Domenico Giordano, classe 80, tutti indagati e consapevoli che il controllo (di fatto) della ditta era saldo in mano ai Delfino. La «risposta giustificativa» dei movimenti di denaro viene fornita dai coadiutori all’agenzia per mezzo di una “scheda contabile di conto cassa” rilasciata dalla “Nuove aziende Sas” della quale Cannizzaro è socia accomandante. Il documento, come evidenziano gli inquirenti, conterrebbe diverse anomalie come prelievi mancanti o altri senza giustificazione nelle operazioni aziendali documentate in contabilità dalla ditta. L’obiettivo da assolvere attraverso la falsificazione dei documenti non è solo quello di occultare i prelievi, ma anche i rapporti con le società di Rocco Delfino. «Gliel’ho detto io: vedete che se esce fuori il nome mio ci arrestano a tutti, quindi regolatevi quello che fate» riferisce lo stesso in merito a una conversazione avuta coi coadiutori.
Da un’ambientale di giugno 2019 nei locali della società emerge addirittura come i professionisti dessero indicazioni per falsificare le scritture contabili ai dipendenti della ditta anche attraverso l’apposizione di firme false.

 «Qui c’è solamente il Generale e basta»

Oltre ad essere disattesa, la misura preventiva viene anche usata in forma strumentale. È questo il caso del 22 maggio 2019 quando in ditta si presenta un funzionario Arpacal. Prima che entri, Concetta Zappone avverte Giovanni Delfino la cui reazione è pronta: «Gli deve dire che è un bene sequestrato, signorina, glielo dica a sti scemi» così da evitare il controllo.
Gli inquirenti rimarcano un’altra conversazione che vede sempre Zappone protagonista mentre spiega ad un’altra persona che nella “Delfino Srl” non esiste alcuna gerarchia aziendale, «qua comanda solamente Giovanni (Delfino, ndr) […] qui c’è solamente il Generale e basta» pur consapevole, come emergerà da altre dichiarazioni, questa volta di Giordano, che Delfino in ditta non poteva nemmeno presentarsi. «Tuo padre – dice il dipendente a Matteo Delfino, figlio di Giovanni, classe 2000 anche lui indagato – se scendono lo… può essere che lo arrestano, perché qui dentro non dovrebbe esserci, non ci dovrebbe essere lui».

Il traffico di rifiuti e i contratti con le società  di Rocco Delfino

mala pigna

A Nucara e Gangemi viene contestato anche l’omesso deposito delle relazioni sulla gestione societaria alla Ansbc (Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati) e della documentazione fiscale della società – così da occultarle al vaglio dei funzionari – «al fine di celare le attività illecite tra cui il traffico di rottami ferrosi che venivano trasportati con mezzi riconducibili a Rocco Delfino» individuato come promotore e organizzatore del sodalizio.
L’obiettivo principale era la «massimizzazione dei guadagni ottenibili con l’illecita gestione di rifiuti, attraverso un’organizzazione stabile e duratura nel tempo» basata sul prevalente impiego degli strumenti aziendali di varie ditte individuali e societarie riconducibili ai Delfino.
Tra queste la “Ecoservizi Srl” di cui Rocco Delfino è titolare ed amministratore di fatto fin dalla costituzione, nel 2012.  Grazie alla connivenza dei pubblici ufficiali, “u rizzu” promuoveva la stipula di contratti di cessione per l’uso di mezzi e personale dalla Ecoservizi e alla “Delfino Srl” in confisca, «in forza dei quali sostanzialmente gestiva i rifiuti introitati da quest’ultima».
I rifiuti, quindi, «senza alcuna attività di trattamento, recupero o riciclaggio, ma semplicemente assistiti da fittizia certificazione» venivano venduti in parte alla Ecoservizi ed in parte a varie imprese operanti nel campo dell’industria siderurgica su tutto il territorio nazionale. Sempre attraverso la Ecoservizi, Rocco Delfino riceveva ingenti quantitativi di rifiuti da soggetti non autorizzati allo stoccaggio ed al trasporto, provvedendo poi a “smaltirli” abusivamente attraverso la rivendita ed il trasporto a terzi. Dall’analisi dei conti correnti emerge inoltre come la società confiscata intrattenesse rapporti solo con altre ditte individuali o società riconducibili alla famiglia Delfino come la “RD di Rocco Delfino”, la “Mc Metalli Srl”, e la “Cm Service Metalli Srl”, intestate a “prestanome” e adibite al trasporto illecito di rottami ferrosi destinati ad acciaierie o «allo smaltimento per conto della società confiscata».
L’import-export era arrivato a coinvolgere anche altre zone del mondo come Tunisia, Iran o Cina dove rilevava un’importazione periodica di rame per quantitativi pari a 500 tonnellate al mese (in almeno 20 container del valore di circa 150mila euro l’uno) per almeno un anno. Valore complessivo dell’operazione stimato in almeno 36 milioni di euro. (redazione@corrierecal.it)

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