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l’inchiesta tauros

Giuseppe Turrà, l’usuraio che «ha costruito un impero dal nulla. Yacht, ville e Maserati grazie allo “strozzo”»

Il giro di prestiti nel Crotonese e le divergenze dei pentiti sui legami con i clan. Valerio: «Grande Aracri aveva dato l’ordine di ucciderlo»

Pubblicato il: 27/10/2021 – 18:06
di Alessia Truzzolillo
Giuseppe Turrà, l’usuraio che «ha costruito un impero dal nulla. Yacht, ville e Maserati grazie allo “strozzo”»

CROTONE Un prestito di 5000 euro elargito nel 2013 la cui restituzione si è trascinata per anni, con interessi usurari altissimi, fino al 2018. La vittima si era impegnata a restituire 500 euro al mese a Giuseppe Turrà, 51 anni, di Cutro, uno degli indagati finito in carcere questa mattina nel corso dell’operazione della Dda di Catanzaro denominata “Tauros”. Tra carcere e domiciliari sono state destinatarie di misure cautelari cinque persone con l’accusa, a vario titolo, di usura, anche aggravata dalle modalità mafiose, estorsione e abusivismo finanziario. 
Le intercettazioni telefoniche dimostrano come ancora nel 2018 vittima e usuraio continuassero a parlare delle mensilità da pagare e ad accordarsi sulla consegna del denaro diretta o tramite intermediari. Viste le difficoltà della vittima a pagare – a causa dell’entità degli interessi e delle condizioni di difficoltà economica in cui versava – sono emerse le pressioni, minacce e intimidazioni che questa ha subito da Salvatore Lorenzano, 43 anni, che agiva per conto di Giuseppe Turrà.
L’usurato nel 2016, nel corso di una conversazione col fratello, racconta come fosse «odioso» il sistema adottato da Turrà rispetto ad altri coi quali in passato aveva avuto a che fare. «Ho capito che è odioso il sistema, ma io quante persone ho avuto a che fare, gente che dici che non valgono, sono stati signori in confronto a questi», spiega al fratello.
Salvatore Lorenzano agiva per conto del padre Francesco, in seguito deceduto, il quale era l’iniziale intermediario tra Turrà e il debitore: «Ogni mese gli do qualcosa, mille euro di capitale e qualche cento euro di spesa. E me lo devo cacciare, che fino a luglio, fino a giugno-luglio tramite Salvatore gli ho detto che… non lo voglio nemmeno vedere più». Con la morte del padre, Salvatore Lorenzano diventa l’unico intermediario tra creditore e debitore.

«Stagli addosso»

Turrà definisce il debitore «quel pedazzone (straccione, ndr)» e invita Salvatore Lorenzano di stargli addosso, «stacci incollo incollo».
Le conversazioni si succedono col tempo e negli anni. Nel 2017 è stato registrato un dialogo tra Turrà e Lorenzano nel corso del quale quest’ultimo ha raccontato che il muratore lo aveva rinviato alla settimana successiva; al che Turrà ha invitato Lorenzano ad essere solerte con il muratore, affinché eseguisse il lavoro. Il linguaggio è criptico: si allude alla difficoltà del debitore di consegnare del denaro, cioè di eseguire il lavoro. 
A gennaio 2018 le pressioni di Lorenzano per compulsare il debitore e assicurarsi che non accumulasse ritardi nei pagamenti. Lorenzano, da parte sua, era stato istruito da Turrà il quale lo aveva precedentemente chiamato per chiedergli aggiornamenti sulla situazione di «quello sciancato».
«Ti fai vedere? … vedi che mi sta chiamando capito … e vedi… che puoi fare … e vedi per sabato dai… ok», dice Lorenzano alla vittima la quale lo rassicura: «Salvatò vedi che per sabato lo facciamo quel coso capito… e si… per sabato… proprio tirato, tirato… altrimenti o sabato o domenica… ma sabato può essere che c’è la faccio capito…».

La soggezione della vittima

L’atteggiamento della vittima è remissivo e di soggezione tanto che ad aprile 2018, quando viene sentito dagli investigatori «pur avendo riferito genericamente di conoscere Salvatore Lorenzano e Giuseppe Turrà, «ha negato di aver subìto richieste usurarie e pressioni estorsive da parte dei due; assumendo, pertanto, un atteggiamento non collaborativo e che si pone in plateale contrasto con il numero e la natura delle conversazioni e degli incontri con tali soggetti, per come emersi in corso di indagine». «Ciò attesta – scrive il gip Rinaldi – l’esistenza di uno stato di intimidazione e di una condizione di assoggettamento della vittima, che non fa che confermare l’impianto accusatorio».

Liperoti: «Turrà ha costruito dal nulla un impero»

Ma chi è Giuseppe Turrà? Il collaboratore di giustizia Giuseppe Liperoti, ex genero di Antonio Grande Aracri e nipote acquisito del boss dei cutresi Nicolino Grande Aracri, racconta di conoscere il soggetto «e posso dirvi – svela ai magistrati – che lo stesso ha costruito dal nulla un impero economico. Ricordo che lo stesso possedeva una casa colonica al bivio di Steccato ed è partito, nel fare l’imprenditore caseario o allevatore, dal nulla. Per come vi ho detto e per quanto io ricordi iniziò la sua attività con un numero esiguo di animali ricordo che possedeva una Lancia Thema Td vecchia. Ad oggi possiede ville, Yacht, Maserati, che per quanto a mia conoscenza sono stati guadagnati da Pino Turrà per il mezzo di una copiosa attività di usura che lo stesso ha sempre svolto anche in accordo alla cosca Trapasso e Mannolo e per conto delle stesse e insieme al cutrese Alfonso Salerno, dipendente comunale».

Valerio: «Pino doveva essere ammazzato»

Anche il collaboratore Francesco Tornicchio afferma che Turrà e la sua famiglia «sono legati alla cosca Grande Aracri». Ma il gip ritiene che le dichiarazioni di Liperoti e di Tornicchio non combacino con quelle del pentito Antonio Valerio, malavitoso radicato a Reggio Emilia e alle dipendenze della famiglia Grande Aracri, «che oltre ad aver reso dichiarazioni confuse e contraddittorie – scrive il giudice –, ha più volte ribadito che il Turrà svolgeva attività di usura in un territorio controllato da consorterie cutresi senza l’autorizzazione». A parere del gip «le propalazioni dei collaboratori di giustizia, pur evocando una vicinanza dei membri della famiglia Turrà al contesto mafioso, non si prestano a far ritenere la sussistenza dell’aggravante». 
Secondo il pentito Valerio c’erano dissapori con i Grande Aracri tanto che Nicolino Grande Aracri avrebbe deliberato l’uccisione di Giuseppe Turrà e di suo fratello Roberto.
«Roberto Turrà e suo fratello Salvatore Turrà, Pino doveva essere ammazzato giù, ma prima doveva morire il Roberto perché è più… è più vivace, è più capace», dice Valerio. Il pm Domenico Guarascio chiede il perché di questa decisione di uccidere.
Secondo Valerio «ci sono più ordini di ragione» ma in sintesi la ragione era che «giù (in Calabria, ndr) c’erano degli interessi che stavano facendo soprattutto Pino stava facendo qualche cosa di usura e robe varia, quindi c’era qualche disquisizione che io non ben conosco qua o meglio giù a Cutro. Quindi l’ordine era di Cutro, ecco perché me lo dà direttamente Grande Aracri, non vuole mettere a conoscenza tante persone, sa che di me può avere questo servizio e alla fine l’altro gruppo che era Sarcone dovevano uccidere Salvatore, però prima doveva partire il… il Roberto» perché «era più diavolo diciamo». La paura era che se fosse stato toccato Pino per primo, il fratello Roberto avrebbe reagito: «Ammazza Pino e vedi che cosa succede con Roberto…», sintetizza il collaboratore Valerio il quale afferma di non essere sicuro sulle ragioni per le quali era stato convocato dall’Emilia Romagna per uccidere i fratelli Turrà. «Però non so se la vera ragione è questa. Questa è quella che mi è stata detta a me, venduta a me, poi sappiamo con chi abbiamo a che fare, quindi è capace che magari la verità è una e me ne ha dato una pseudo verità…».
Dunque Pino praticava «usura non autorizzata» e Roberto era da temere per una eventuale reazione violenta alla morte del fratello tanto che era stato convocato Antonio Valerio da Reggio Emilia per eliminarlo. Questo era l’ambiente, con o senza aggravante mafiosa.(a.truzzolillo@corrierecal.it)

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