Molto si discute – e lo si fa anche alle nostre latitudini – di smart city. Tema di indubbio interesse, perché ha notevole spessore teorico e, a motivo delle immediate ricadute sulla vita concreta dei cittadini, ha anche rilevante importanza pratica.
A livello divulgativo se ne danno innumerevoli definizioni. In sintesi, la smart city viene fatta coincidere con la città “intelligente”, perché dotata di un sistema di connettività, gratuita o a basso costo, che viene messo a disposizione dei cittadini per migliorare la fruizione dei servizi pubblici, rendendoli sempre più evoluti in termini di contenuto tecnologico. Tuttavia, i singoli servizi, presi singolarmente, non fanno della città una smart city, ovvero non ne colgono l’essenza, l’idea cioè che sta alla base della Strategia Europa 2020 diretta a perseguire un modello di città in cui la crescita sia “intelligente”, ma insieme “sostenibile e inclusiva” nella prospettiva della c.d. rigenerazione urbana. Un tema, quest’ultimo, che già in passato, nell’ambito dei Programmi Urban, esaltava gli aspetti economico-sociali degli interventi urbanistico-edilizi in un’ottica “integrata”. È in questo solco che vanno letti, da un lato, la recente legge di bilancio 2020 che assegna contributi ai Comuni al fine di favorire progetti di rigenerazione urbana intesi a ridurre i fenomeni di marginalizzazione e di degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale (art. 1, comma 42), e, dall’altro, il “Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare” diretto a rigenerare il tessuto socio-economico sia attraverso interventi di riqualificazione e di incremento dell’edilizia residenziale sociale, di rifunzionalizzazione degli spazi e degli immobili pubblici, sia attraverso interventi diretti a migliorare la coesione sociale e la qualità della vita dei cittadini, la sicurezza dei luoghi e l’accessibilità ai servizi secondo il modello urbano della città intelligente, inclusiva e sostenibile.
Ben si comprende, dunque, come il modello della smart city vada immaginato, perseguito e costruito nell’ambito delle politiche di rigenerazione urbana. Diversamente da quelle dirette alla riqualificazione edilizia, le politiche di rigenerazione urbana vanno ben oltre gli interventi di recupero e di risanamento di zone urbane degradate, finalizzate come sono a incidere e contrastare i fenomeni di degrado urbano attraverso azioni complesse dirette ad assorbire i fenomeni di marginalità sociale, economica, occupazionale, culturale in una prospettiva di coesione territoriale. Trattandosi di azioni complesse, le politiche di rigenerazione guardano ai singoli interventi, sia che provengano dagli attori pubblici sia che muovano dai soggetti privati, in una prospettiva “integrata”, che si sostanzia in un insieme di misure che vanno da quelle urbanistiche ed edilizie a quelle socio-economiche, a quelle dirette all’innovazione tecnologica e, insieme, alla tutela ambientale.
Se le politiche di rigenerazione muovono anche dai soggetti privati, è evidente come inevitabilmente presuppongano e, al tempo stesso, comportino inedite strategie di cooperazione tra pubblico e privato, che di quest’ultimo intendono fare non un semplice consumatore di servizi, ma un co-produttore di servizi nel quadro di quella che definiamo sussidiarietà orizzontale. A questo riguardo va detto che il modello tradizionale di pianificazione di marca illuministica e razionalista che muove dall’alto (top down) è andato progressivamente in crisi, ancor più da quando le politiche di liberalizzazione hanno inteso esaltare la responsabilità dell’individuo nel quadro di politiche di mercato che hanno finito per incidere tanto sul concetto di cittadinanza quanto su quello di partecipazione alla vita politica della comunità. Al modello di pianificazione che muove dall’alto si affianca così un modello di regolazione che muove dal mercato (bottom up) e che, perciò stesso, incentiva la progettualità privata. Una tale torsione del modello pianificatorio porta a concepire il territorio come il prodotto di una serie di interventi espressione “anche” della comunità, e non solo degli attori pubblici.
Lungo questo crinale le tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni e la digitalizzazione dei processi svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione della smart city solo – e sottolineo: solo – nella misura in cui riescano a fare del privato un co-produttore dei servizi. Se dall’utilizzo delle tecnologie dell’ICT e della digitalizzazione viene fuori “solo” una serie di interventi di efficientamento dei servizi pubblici e dell’azione amministrativa (penso, per esempio, agli interventi in materia di banda larga o a quelli intesi ad implementare i big data allo scopo di misurare performance organizzative e processi amministrativi), la partecipazione del privato può senz’altro migliorare sul piano della fruizione del servizio, ma non certo in termini di coinvolgimento nella costruzione delle politiche urbane. Lo stesso processo di transizione digitale presentato dal governo nell’ambito delle misure dirette a dare attuazione al PNRR rischia di non superare la soglia oltre la quale si schiude il vasto campo della cooperazione del privato nella costruzione della città, pur essendo le misure di innovazione (banda ultra-larga, cloud PA, identità e domicilio digitale, interoperabilità dei dati per i servizi on line ai cittadini, piattaforme di notifica digitali e cybersecurity) passi fondamentali e imprescindibili nella direzione della modernizzazione dell’apparato amministrativo e dei servizi al cittadino e agli operatori economici.
Diversamente accade quando le tecnologie dell’ICT e della digitalizzazione vengano pensate, costruite e messe a disposizione del cittadino al fine di stimolarlo alla “costruzione attiva” della città secondo la prospettiva bottom up di cui abbiamo detto. Per esser chiari, vi sono città in cui il cittadino viene messo nelle condizioni di seguire in tempo reale, attraverso l’utilizzo di una apposita piattaforma digitale, la formazione della pianificazione urbana e di interloquire direttamente con l’amministrazione quando le sue scelte sono ancora in fieri; vi sono piattaforme in cui i cittadini possono direttamente sperimentare ed elaborare la modellazione della città, da offrire poi, in tempi reali e comunque immediati, alla valutazione dell’amministrazione; vi sono sensori che, messi a disposizione dei conducenti, consentono loro di segnalare immediatamente – all’atto stesso in cui vi impattano – all’amministrazione comunale le buche stradali, in modo che si provveda tempestivamente a ripararle (certo, nella nostra Città un congegno di questo tipo finirebbe per stordire gli amministratori); penso alla possibilità del cittadino/privato di produrre, attraverso micro-impianti, energia da fonte rinnovabile destinata alla vendita oppure al mutuo scambio tra vicini, in modo da cooperare con il settore pubblico al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale; penso ancora alla sharing economy, un fenomeno vasto, declinato com’è in vario modo, che prende anche la forma della sharing mobility suscettibile di favorire inediti rapporti di collaborazione e cooperazione tra pubblico e privato nell’ambito delle politiche di mobilità urbana non da ora sofferenti.
Si tratta, insomma, di modelli in cui la “partecipazione”, tanto declamata ma spesso relegata a mero flatus vocis, si fa co-progettazione della città attraverso forme dinamiche e strutturate di partenariato pubblico-privato. Nel perimetro disegnato dall’art. 20, rubricato “Comunità intelligenti”, del decreto-legge n. 179 del 2012 (c.d. Decreto Crescita 2.0), l’Agenzia per l’Italia digitale si è fatta capofila di un raggruppamento diretto a progettare e implementare la piattaforma nazionale per la gestione delle comunità intelligenti (Smart Ivrea Project), ammessa a finanziamento a valere sul fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC) 2014-2020, Asse II Programma di supporto tecnologie emergenti 5G. Si tratta di un partenariato, guidato da AGID, che mette insieme una serie di competenze del settore privato e di centri di ricerca di eccellenza nell’ambito dell’intelligenza artificiale e dell’Internet of Things del Politecnico di Torino, ed è impegnato ad attuare la transizione da una governance “gerarchica” e “centralizzata” ad una governance “partecipata”, a supportare attività progettuali “autonome” e “spontanee” e ad usare “i principi dell’economia comportamentale” finalizzati a progettare “un sistema premiale che induca il cittadino ad assumere comportamenti virtuosi, monitorandone i progressi mediante tecniche di sentiment analysis e web-reputation”.
In questo senso sembra muoversi la programmazione europea 2021-2027 che, delineando i cinque obiettivi strategici (Europa più intelligente, Europa più verde, Europa più connessa, Europa più sociale e inclusiva, Europa più vicina ai cittadini), in luogo degli undici obiettivi tematici della politica di coesione 2014-2020 – invero già abbastanza orientata a favorire processi di integrazione nell’ambito delle politiche di rigenerazione urbana -, imprime una più decisa sterzata nella direzione della smart city, anche attraverso la “combinazione” delle azioni finanziate con i fondi strutturali.
Gli anni che vanno da qui al 2027 sono anni decisivi perché coincidenti con l’attuazione del PNRR. Un’opportunità irripetibile per sviluppare nelle nostre città sistemi di coinvolgimento e di “capacitazione” della “comunità” nell’ambito di processi che muovano, per l’appunto, dal basso: dal cittadino, dalla società civile, dal settore privato. In un momento in cui il settore pubblico e i sistemi di welfare sono in affanno sotto il peso del debito, è più che mai necessario coinvolgere, attraverso le tecnologie dell’ICT e della digitalizzazione, la comunità nella costruzione/progettazione della città e dei suoi servizi. *professore di Diritto amministrativo nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
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