«Sarebbe utile uno studio per approfondire le conseguenze dell’uso indiscriminato degli acronimi sul linguaggio e sulla facilità di comunicazione». Segue l’applauso scrosciante del pubblico a seguito dell’intervento di Sergio Mattarella durante il discorso per l’inaugurazione del 781esimo anno accademico all’Università di Siena. Il presidente stava parlando di PNRR e dei segnali positivi che emergono da «quel programma governativo chiamato con l’acronimo PNRR» e si è lasciato andare in un inciso che ha suscitato l’entusiastica reazione dei presenti.
Difficile non essere d’accordo: basta pensare alle prime riunioni di lavoro, quando alcuni colleghi senior introducono i neoassunti con una serie di sigle, abbreviazioni, citazioni fantasiose che non hanno ragion d’essere tranne buttare il malcapitato nello sconforto. Di base il problema si riconduce alla notoria incapacità dello Stato e delle sue varie articolazioni di farsi capire dai cittadini.
Il recente caos del “click day” per il “bonus Terme” è un esempio di scorretta comunicazione da parte dei soggetti istituzionali incaricati che ha lasciato molti cittadini a bocca asciutta. E in quel caso l’utilizzo degli acronimi non era neanche contemplato, siamo nel campo della chiarezza comunicativa.
La stessa Accademia della Crusca si è scomodata evidenziando la necessità di sorvegliare sull’uso degli acronimi, di cui oggi si abusa. E lo fece in occasione dell’uscita dell’applicazione IO, messa a disposizione dal Governo e creata per collegare l’identità digitale degli italiani (SPID) ai servizi della pubblica amministrazione. Al momento del caricamento dell’applicazione comparivano parole come onboarding, brand, renaming, form. Un’applicazione che nasce in ambito governativo, ha sottolineato il gruppo Incipit presso l’Accademia della Crusca, non può affidare al gergo degli informatici la scelta del linguaggio con cui parlare al pubblico, per quanto si sappia che questi testi durano poco, presto sostituiti da altri nei successivi aggiornamenti. Il rapido consumo della Rete non giustifica il disinteresse per la forma, specialmente in un’applicazione di alto valore simbolico e morale, che deve garantire la comprensione del testo da parte di un pubblico il più ampio possibile. Gli acronimi, fin dal tempo dei manuali di stile per la pubblica amministrazione voluti dai ministri Cassese e Bassanini (ed ispirati ai suggerimenti di Tullio De Mauro), sono stati indicati come fonte di oscurità e confusione: un utente comune può scambiare il PAN (Primary Account Number) con il PIN (Personal Identification Number). L’eccesso di queste formule a volte misteriose (utilizzato molto spesso quando si parla di adempimenti importanti come il pagamento di tributi) se da un lato può far sentire il potenziale interlocutore o utente impreparato, inadeguato, in realtà risponde ad una precisa finalità strategica, tipica della comunicazione che si utilizza nel linguaggio burocratico: creare incertezza, confusione, mettere in difficoltà. Perché la parola “comunicare” ha un preciso significato: far conoscere, rendere comune. Ma se il concetto che si comunica è indecifrabile o, peggio ancora, si lanciano acronimi a dismisura c’è poco da mettere in comune. E di questo, al solito, ne fanno le spese i cittadini.
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