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La libertà soffocata di Rocco Molè, cresciuto per diventare un capo. «Mi dispiace ma non c’è gioco»

Anatomia di un rampollo di ‘ndrangheta. A 13 anni il padre ne fa un soldato. A 16 il tribunale minorile lo mette alla prova. A 22 arriva al vertice della “famiglia”. A 25 viene arrestato con 534 ch…

Pubblicato il: 17/11/2021 – 6:54
di Francesco Donnici
La libertà soffocata di Rocco Molè, cresciuto per diventare un capo. «Mi dispiace ma non c’è gioco»

REGGIO CALABRIA Sospendere il giudizio. È in parte questo il senso della “messa alla prova”. Lo era stato anche per il giovane Rocco Molè, classe 95, ma senza l’esito sperato. Il nome del rampollo torna ancora oggi, questa volta nell’inchiesta “Nuova Narcos Europea” frutto dell’attività delle procure antimafia di Reggio Calabria, Firenze e Milano. L’accusa, nei suoi confronti, è quella di essere «capo, promotore ed organizzatore» di un’associazione con ramificazioni internazionali dedita al narcotraffico, ma anche il reggente dell’omonima “famiglia” egemone a Gioia Tauro in coabitazione coi “Piromalli”. Troppo stringente, forse, la morsa di quel cognome. Le pressioni del padre, Girolamo Molè, classe 61, uno dei capi storici. Oggi detenuto nel carcere di “Opera”, a Milano, dove sconta una condanna all’ergastolo. «Un ordine imperioso e terribile», scrivono gli inquirenti, era arrivato dal padre al figlio.
Nel 2008, il giovane Rocco ha solo 13 anni. Quello è l’anno dell’uccisione di suo zio, Rocco Molè. Parte da lì la guerra e il declino della “famiglia”. E quando la “famiglia” è in guerra, tutti devono partecipare. «La guerra – si legge ancora nelle riflessioni della procura – diventa indispensabile allorquando venga dichiarata da altre ‘ndrine. Rispondere è l’unica possibilità». Non si fanno sconti a nessuno, neppure ai minori d’età, soprattutto se maschi e figli dei capi.
«Vedi che io fino adesso ti ho parlato con il buono perché pensavo che mi capisci…tu…è finito di giocare…non esiste il gioco…mi dispiace ma non c’è gioco». “Mommo” puntava tutto sul giovane Rocco, «perché dico che sei quello più intelligente». «Siccome c’è questo problema dobbiamo lasciare perdere il giocare…dobbiamo vedere solo la famiglia e basta». Doveva diventare il capo, Rocco Molè. Doveva crescere in fretta, fino alla prima indagine del 2014 e al recente arresto di marzo 2020.  

L’omicidio di Rocco Molè, anno 2008. Punto di rottura tra le cosche di Gioia Tauro. Inizio della guerra e del declino dei Molè

Dai “contributi di rispetto” alla messa alla prova

Nel 2010 Rocco Molè, “Roccuccio” per i familiari, non aveva compiuto 16 anni. Quello è l’anno d’inizio dell’attività investigativa che porterà, il 24 giugno 2014, all’operazione “Mediterraneo”. Viene accertata l’operatività della cosca Molè in alcune attività economiche tra Gioia Tauro e Roma. I destinatari di misura cautelare sono in tutto 53. “Roccuccio” sarebbe coinvolto nel traffico di armi oltre che collettore di “contributi di rispetto” provenienti dai sodali, «dovutogli per dinastia ed in nome degli investimenti nel settore delle slot machine già in passato effettuati dal defunto zio». Contributi che il rampollo riscuoteva «in termini di pretesa e con toni perentori».
Roberto Di Bella decide di investire su di lui. Evitargli il carcere, che in giovane età potrebbe produrre l’effetto opposto. L’ex presidente del tribunale minorile reggino (oggi a Catania) è l’ideatore del percorso “Liberi di scegliere”, divenuto in seguito protocollo grazie al quale viene permesso a minori e donne delle famiglie di ‘ndrangheta di rompere la morsa familistica e costruire una nuova vita. Per Rocco Molè il tribunale dei minori aveva disposto il procedimento alternativo della “messa alla prova”. Primo caso in cui un soggetto accusato di associazione mafiosa poteva usufruire di un istituto simile. Un percorso importante, difficile. Una scelta. Alla fine, nel 2017, si sarebbe trovato di fronte alla scelta tra spezzare del tutto quel legame per cui a soli 13 anni era divenuto soldato o tornare in “famiglia” per raccogliere l’eredità di un padre al 41-bis.

Il ritorno in “famiglia”. «Vuole comandare e lo fa in mille modi»

L’indagine “Nuova narcos europea” parte nel gennaio 2019. Prende le mosse da un’altra indagine, “Handover”, iniziata proprio nel 2017. Tra i dialoghi all’attenzione della Pg ce n’è uno tra Antonino Pesce, classe 93 e Rocco Molè. Si discute della spartizione degli affari tra le cosche di Rosarno e Gioia Tauro. Si programmano rapine, traffico d’armi e quant’altro sarebbe occorso alle rispettive “famiglie” per «ricavare profitti illeciti». È qui che viene avviata una complessa attività investigativa che porterà a due conclusioni. La prima è che la cosca Molè si era riorganizzata dopo la caduta in disgrazia successiva al 2008. La seconda è che nel farlo poteva di nuovo contare sul giovane Rocco. Ad affiancarlo, quelli che la procura descrive come «fidi e agguerriti gregari»: Domenico laropoli, Giacomo Previte, i fratelli Ficarra – che lo coadiuvano come riferimento per i traffici fuori regione – e il cugino Ippolito Mazzitelli. «Molè vuole comandare e lo fa in mille modi», scrivono gli inquirenti. «Lo fa muovendosi platealmente nelle strade con giovani leve che per suo nome e per suo conto chiedono il pizzo», «assicurando la espansione economica della cosca nell’area lombarda» oppure «con modalità violente e minacce gravi ed eclatanti» nei confronti degli imprenditori del luogo o per imporre la signoria della sua cosca sulle altri gruppi criminali. È il caso, ad esempio, degli “Stangatelli” che arrivano a temere le sue ritorsioni per via di un debito non saldato. Figura chiave è quella del nonno, Antonio Albanese, classe 45, più di un semplice consigliere. È un reggente ombra che supervisiona l’attività del nipote. Non a caso, il “grande vecchio” arriva ad adirarsi quando il nipote non lo avverte della controversia sorta con l’altra cosca. «Si è sentito scavallato, hai capito, tipo ha detto fai cose senza dirmi niente…allora non siamo la stessa cosa» rivela Molè a Iaropoli a proposito della reazione di Albanese. Rocco Molè finisce indagato anche nell’inchiesta “Geolja” dello scorso mese di luglio, dove gli inquirenti riportano di un “patto di non belligeranza” con i Piromalli per sedimentare l’egemonia delle due cosche su Gioia Tauro e regolamentare il business delle estorsioni, «rappresentazione plastica delle sue scorribande quotidiane», scrive il gip. Il settore appaga il suo «bisogno famelico di denaro», ma anche le necessità che gli sono state demandate, come il mantenimento dei carcerati. «Venerdì entro in tutti i negozi di Gioia…li raccolgo», minaccia in una intercettazione.

L’arresto dopo il ritrovamento di 534 chili di cocaina. «È tutto mio»

Nel 2020 Rocco Molè ha 25 anni quando, il 21 marzo, in pieno “lockdown” lascia la sua abitazione per dirigersi, insieme ad altre persone, su un terreno al quarto stradone Sovereto di Gioia Tauro. C’è da reperire un trattore e un escavatore per trasportare e interrare un carico in campagna. Il successivo 25 marzo scatta la retata. All’interno di un deposito su quel fondo vengono trovate tre ceste contenenti 150 panetti di cocaina con su stampato il logo del Real Madrid, per un totale di oltre 166 chili. Nelle pertinenze di un terreno dello stesso Molè erano stati interrati altri 340 panetti sigillati. Il totale del sequestro sarà di 534 chili di cocaina. «Quello che avete trovato è tutto mio. – dichiara agli agenti Rocco Molè – Aggiungo che mio nonno è all’oscuro di tutto». Viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Bari dove si trova tutt’oggi.
L’inchiesta di questo 16 novembre accende una luce tutta nuova, che solo si poteva ipotizzare dopo il rinvenimento di quel quantitativo di sostanza. Per i magistrati sarebbe lui il «principale promotore dei traffici di stupefacente» riferibili alla “Nuova narcos europea”.
Rocco Molè avrebbe «coordinato le operazioni di importazione della sostanza stupefacente giunta in Italia» dal Sud America, «impartendo direttive agli operatori portuali infedeli per la ricezione dei carichi, organizzandone lo stoccaggio e la successiva commercializzazione». Viene accertata la sua presenza tanto al porto della Piana quanto a Livorno per coordinare i traffici ed elargire laute ricompense alle persone impiegate. «Cura la permanenza a Gioia Tauro dei chimici e dei militari della marina militare peruviana, impiegati, rispettivamente, i primi per la preparazione e il confezionamento delle partite di cocaina e i secondi per il recupero in alto mare dei carichi». Dal grande al piccolo, si muove spesso in prima persona. Sentendosi libero, forse non essendolo mai stato. (redazione@corrierecal.it)

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