CATANZARO Nel 1966 un verbale del consiglio regionale della Valle d’Aosta ci racconta di un alterco nato tra i consiglieri e di uno scambio di accuse pesanti: essere stati eletti con l’aiuto della mafia.
C’è un lavoro d’archivio imponente dietro il nuovo libro scritto dal procuratore Nicola Gratteri e dallo storico e scrittore Antonio Nicaso, “Complici e Colpevoli. Come il Nord ha aperto le porte alla ‘ndrangheta”. Il Corriere della Calabria ha raggiunto i due autori per discutere del loro ultimo lavoro.
E questo lavoro racconta una storia ben precisa: «La presenza della ‘ndrangheta al Nord si manifesta già negli anni ’50-’60-’70 e non è legata al fenomeno del soggiorno obbligato. Addirittura – spiega il professore Nicaso – si sospetta la presenza di un locale di ‘ndrangheta in Liguria già negli anni ’40».
Il nuovo libro di Gratteri e Nicaso nasce «dalla necessità di spazzare via la metafora del contagio nato con il soggiorno obbligato degli appartenenti alle cosche», un narrazione della ‘ndrangheta al Nord che, dice Nicaso «non regge al confronto con gli atti giudiziari».
Ma a chi fa comodo oggi e ha fatto comodo in passato il dilagare della ‘ndrangheta al Nord?
«A chi ne trae vantaggio. A quei politici e a quegli imprenditori che hanno sempre agito secondo logiche di convenienza. Fa comodo a molti, mi creda», dice il procuratore Gratteri
«Sono due le costanti che hanno portato al radicarsi della ‘ndrangheta al Nord: la legittimazione e la sottovalutazione – spiega il professore Nicaso –. L’edilizia ha fatto da traino e poi la politica ha consolidato la presenza delle mafie. Ci sono stati accordi sottobanco prima con gli imprenditori e poi con i politici. La ‘ndrangheta offriva, per esempio, servizi a basso costo come la manodopera degli immigrati calabresi i quali, grati per il lavoro ricevuto, si trasformavano in bacini di voti».
Se, com’è scritto anche nel libro, nelle regioni settentrionali i clan si presentano raramente con le armi in pugno, qual è la strategia più usata per assoggettare e incutere timore?
«A precederli ormai – spiega Nicola Gratteri – è la reputazione, la loro capacità di usare la violenza quando è necessaria. Oggi hanno meno bisogno di sparare. Hanno capito che la strategia migliore è quella di muoversi sotto traccia, evitando di creare allarme sociale».
Perché è stata negata per decenni la presenza della ‘ndrangheta al Nord?
«Per interessi di marketing territoriale – spiega Antonio Nicaso –. Per poter dire che in quelle regioni la mafia non c’è. Per potere dire “potete venire e investire”. Strategie di tutela dei territori che oggi si sono scoperti incrostati dal fenomeno mafioso».
Ma il fenomeno è stato sottovaluto, in passato, anche dalla magistratura?
«Anche la magistratura lo ha sottovalutato, per esempio in regioni come il Piemonte e la Valle d’Aosta – dice Nicaso –. Prendiamo il caso del giudice Bruno Caccia che è stato ucciso (a Torino nel 1983, ndr) perché era diverso dagli altri investigatori. Il fenomeno è stato ignorato per tanto tempo. Basti pensare alla vicenda del pretore di Aosta Giovanni Selis che indagava sugli interessi della ‘ndrangheta intorno al casinò di Saint-Vincent. Si salvò da un attentato dinamitardo. Accusò la corruzione nell’ambito della magistratura. Non si riprese mai e morì suicida (nel 1987, ndr). In Lombardia c’è stata una serie di arresti negli anni ’90 poi più niente per tantissimo tempo. Nei primi anni 2000 si comincia a prendere consapevolezza del fenomeno».
Procuratore Gratteri com’è oggi il rapporto con le Procure settentrionali?
«È migliorato, ma c’è ancora tanto da fare».
Lei, procuratore, ha più volte parlato di «tempi di guerra». Su quanti fronti si combatte, oltre che su quello contro la ‘ndrangheta?
«Si combatte contro l’indifferenza di chi non riesce a capire l’importanza della lotta alle mafie. Si combatte contro certe modifiche normative che non contribuiscono a rendere più efficace l’azione di contrasto. Si lotta contro chi con le mafie da tempo ha deciso di convivere. Si lotta anche contro chi non comprende l’importanza di investire nella scuola e nella ricerca».
Quanto contano ancora i locali calabresi per le cosche del Nord?
«Molto – dice Gratteri – c’è un cordone ombelicale che non si spezza».
«Le cosche al Nord – afferma il professore Nicaso – oggi possono godere di autonomia operativa ma il legame con la “casa madre” resta forte. Sono stretti i rapporti con le filiali nazionali ed estere. Oggi le mafie corrono sul doppio binario della tradizione e dell’innovazione».
Le cosche oggi sventolano davanti agli occhi di imprenditori, politici e funzionari grosse quantità di denaro. Non più omicidi e intimidazione ma corruzione, trasferimento fraudolento di valori, autoriciclaggio, fatturazioni per operazioni inesistenti.
«La ‘ndrangheta possiede una fondamentale capacità di adattamento rispetto ai territori nei quali si insedia – spiega Nicaso –. Poca violenza e molta strategia. Le mafie hanno sempre meno bisogno di usare la violenza. Ci sono anche i social network che le accreditano».
Procuratore, in Appello si rischia di avere le armi spuntate su questi reati con la tagliola dell’improcedibilità?
«Certamente, soprattutto per quanto riguarda i reati contro la pubblica amministrazione. Non sarà facile evitare la tagliola dell’improcedibilità».
Il Sud viene tagliato fuori dal resto dell’Italia anche da quel pezzo dell’informazione che ignora, per esempio, un maxi processo contro la ‘ndrangheta come Rinascita-Scott. Si è chiesto perché siamo dei desaparecidos?
«Non saprei – dice Gratteri –, la Calabria è sempre stata ignorata dai grandi media. Forse il maxi processo non fa notizia, come invece succede quotidianamente con i media internazionali».
Procuratore, quali sono i suoi progetti e i suoi sogni per il futuro?
«Se potessi non lascerei Catanzaro dove mi trovo benissimo. Purtroppo, non posso. Ho fatto domanda per il posto di procuratore nazionale antimafia. Vedremo». (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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