ROMA «È un momento in cui serve necessariamente un’operazione verità. Sarebbe estremamente grave far prevalere la tendenza a minimizzare gli ultimi scandali. Sarebbe da irresponsabili pensare che tutto è stato causato soltanto da poche mele marce ma è l’epilogo di una degenerazione di un sistema che ha consentito a delle metastasi di impadronirsi di un corpo sano, attraverso il dilagare della prassi del “correntismo” esasperato, del carrierismo e la folle corsa agli incarichi direttivi, della gerarchizzazione delle Procure e della tendenza di adottare dei criteri di opportunità rispetto». Non usa mezzi termini Nino Di Matteo, magistrato antimafia e ora membro del Csm, ospite di “Tg2 Post”, per presentare il suo ultimo libro “I nemici della giustizia”. Partendo dai recenti scandali che hanno colpito duramente la credibilità della magistratura italiana, Di Matteo ha definito – quello attuale – un momento «particolare, un momento pericoloso perché ci sono due pericoli contrapposti: da una parte la volontà di una certa magistratura di dimenticare e archiviare gli scandali che l’hanno colpita non considerandoli come frutto di un sistema che si è deteriorato; dall’altra c’è il pericolo che la politica, o comunque una larga parte del potere reale di questo Paese, approfitti del momento di oggettiva debolezza della magistratura per scopi di vendetta, per quello che la magistratura ha saputo fare nel controllo di legalità anche nell’esercizio del potere e per scopi di prevenzione e per far sì che la magistratura in futuro possa essere in qualche modo più docile e svolgente una funzione collaterale e servente rispetto al potere politico e a quello esecutivo».
Secondo l’ex pm del processo “Trattativa” e ora consigliere del Csm «in questo momento dobbiamo reagire con una operazione di verità, senza nascondere la polvere sotto al tappeto ma anche ricordando a tutti i cittadini, in gran parte comprensibilmente sfiduciati nei confronti del sistema giustizia, che la magistratura è quella che nel nostro Paese più di ogni altra istituzione ha garantito l’attuazione dei principi costituzionali e ha saputo rappresentare il baluardo contro l’offensiva del terrorismo, delle mafie e dei poteri occulti». Poteri occulti dietro i quali si celano i veri nemici della giustizia, che secondo il consigliere togato al Csm «non sono soltanto i mafiosi, i corrotti e i criminali ma quelli che si annidano all’interno delle istituzioni politiche, finanziarie, economiche e, purtroppo, anche all’interno della magistratura. Sono quelli che nella magistratura hanno ostacolato il lavoro dei magistrati liberi e coraggiosi, quelli che hanno consentito che nella magistratura entrasse il tarlo del collateralismo politico».
Nel corso della puntata, poi, Nino Di Matteo ha anche affrontato una delle tematiche cruciali che affliggono la magistratura ovvero le “correnti” che, secondo Di Matteo «si fondono sul privilegio del criterio dell’appartenenza. Chi appartiene ad una corrente o ad una cordata viene garantito, tutelato, promosso, difeso nei momenti di difficoltà che inevitabilmente si possono presentare nella carriera. Chi è fuori da questo sistema rischia di essere pretermesso, delegittimato e isolato. Questo è un sistema che, proprio perché contrario ai principi della Costituzione, finisce per essere eversivo».
«Noi lo dobbiamo combattere, noi per primi magistrati. Non è accettabile che l’appartenenza ad una corrente detti i criteri per le nomine, per le promozioni, per gli incarichi. Questa degenerazione del sistema è stata comoda anche per la politica perché, attraverso questo inquinamento della magistratura attraverso dei criteri che sono propri della politica, questa ha preteso e qualche volta è riuscita a controllare meglio la magistratura». «Quella di controllare la magistratura, ne sono convinto, è un’idea presente in buona parte del ceto politico». «Tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non significa privilegiare un interesse della casta dei magistrati, bensì privilegiare e tutelare i diritti dei cittadini, delle minoranze, delle dissidenze».
Di Matteo poi rincara la dose: «Esasperando il concetto, mi permetto di dire che questi sono metodi che denotano una “mafiosizzazione” del Paese. Il metodo del privilegiare l’appartenenza a qualcuno o a qualcosa significa mortificare il sistema costituzionale. Non dobbiamo avere paura della verità perché credo che ci sia una buona parte della magistratura italiana che non ne può più di questo sistema e che vuole recuperare effettiva indipendenza e autonomia e ci sia un’altrettanto consistente parte del popolo italiano che ha una grande sete di giustizia e vuole recuperare fede nella giustizia e non possiamo tradire questa fiducia». «Purtroppo in certi momenti ho pensato di essere un ingranaggio di una giustizia a due velocità: efficace alcune spietata con i poveracci e purtroppo molte volte con le armi spuntate nei confronti della criminalità del potere. E questo è stato accentuato dal fatto che ogni volta che le inchieste alzano il tiro per controllare la legittimità dell’esercizio del potere, non soltanto politico ma istituzionale, inevitabilmente ne derivano polemiche, accusa di politicizzazione dei magistrati e delegittimazione». Lo stesso che accadde a Falcone. «E ora tutti, proprio tutti, fingono di onorare la memoria di Falcone e di Borsellino, anche coloro i quali, mentre erano ancora in vita, li accusavano di essere politicizzati, carrieristi, sceriffi, fascisti o comunisti, Falcone era stato accusato di essersi messo da solo la bomba in occasione dell’attentato fallito. Ora utilizzano la loro memoria per attaccare i magistrati vivi, dimenticato che quei magistrati che ora fingono di onorare da morti, erano stati il loro bersaglio da vivi».
E, infine, la riforma Cartabia. Secondo Di Matteo però la giustizia e «la riforma della giustizia implicano delle scelte non soltanto tecniche, ma anche scelte di opzioni politiche e di visione ideale della società. Far dipendere queste scelte dalla necessità di percepire i fondi europei e con i tempi dettati da quelle esigenze, è già una cosa che mi preoccupa. Non mi piacciono poi alcuni aspetti particolare della riforma e su tutti uno: la previsione che sia il Parlamento a dettare i criteri generali di priorità nell’esercizio dell’azione penale per i procuratori della Repubblica. È un attacco al principio di obbligatorietà all’azione penale e al principio fondamentale di separazione dei poteri».
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