Ho versato lacrime. Scendevano lente. Non dagli occhi ma dal petto. Da un luogo profondo, più interno del cuore, fra i polmoni e le vertebre. Un luogo irraggiungibile, intricato. Dove non arrivano i chirurghi. Una colata di linfa vitale lasciava il mio corpo. Una parte di me scompariva in un abisso. Sono occorsi tre mesi perché trovassi la forza di tornare. Avevo attraversato il fuoco. Ma non ancora quello dell’Aspromonte: troppo bruciante il ricordo! L’ultimo luogo che visitai, dell’Aspromonte, prima dei roghi, fu proprio lassù, ai pini e alle querce giganti di Acatti. Ho seppellito il mio cuore fra quegli alberi, su quel crinale, in quelle vedute di boschi infiniti incorniciate dai rami, su quei costoni sberciati che scendono verso il fondo delle gole. Ora li vedo dal crinale opposto a Valle Infernale, percorrendo il sentiero che serpeggia, tra sfasciumi di rocce, da Monte Perre a Croce di Dio Sia Lodato. In fila, come strane antenne annerite, crolleranno presto. Diverranno un cimitero di pachidermi. Saranno dimenticati. Qui, oggi, trovo lenimento grazie alle grandi querce scampate al disastro. Di là della Butramo, invece, restano il lutto e il pianto per la bellezza perduta. Mi osservo dall’esterno, come una delle donne affrante dal cordoglio di Ernesto De Martino. Il mio è il “pianto rituale nel mondo antico”. Quando per superare la perdita dovevi condividere e manifestare il dolore. Un compito assegnato alle donne. Erano loro a piangere, pronunciare canti straziati, graffiarsi il viso, il collo, il petto, strapparsi i capelli, rivolgersi al cielo con gli occhi stretti. Perché solo le donne sono generatrici di nuova vita. È a loro che spetta il sacerdozio della fertilità e della rigenerazione. Dopo la morte.
Ora comprendo cosa vuol dire Gioacchino Criaco quando scrive “Aspromonte madre”. Camminando, qui oggi, incontro segni dell’eterno femminino. La Sorgente del Vecchio che sgorga sulla roccia. Le grandi querce segnate da vagine segrete. Le ghiande panciute. La fiumara laggiù, che serpeggia e ruggisce sul fondo delle gole. Più in là c’è l’“utero rovesciato” di Polsi – come lo definì il vescovo Antonio Ciliberti – con la sua Madonna-Sibilla. E c’è il culto di Persefone nell’antica Locri Epizephiri, la dea rapita da Ade e poi ciclicamente restituita alla madre Demetra, perché consentisse la rinascita della primavera. C’è il rito pasquale delle persefoni (le “pupazze”) di Bova. C’è il “Sud antico” raccolto e testimoniato da Emanuele Lelli. C’è il ricordo della Grande Dea di Marija Gimbutas, Robert Graves, Riane Esler. Incontro Santoro ed i suoi tre fratelli, di Africo. Sono loro che hanno lo stazzo a Monte Perre. Loro che vidi tutte le volte che venni quassù. Loro che sono i genî dei luoghi. Loro che mi indicarono la via per la misteriosa Fontana di Buttia. Loro che lasciano i segni per ritrovare la via nell’intrico dei lecci. Loro che resistono all’abbandono della montagna. Loro che tengono ancora accesa una flebile speranza di vita. Arranco sino alla vetta di Croce di Dio Sia Lodato, all’immensa veduta fuori e dentro me stesso: il mio Aspromonte interiore. Pronuncio, commosso, l’inno omerico: “La Terra io canterò, l’antichissima madre del Tutto, che sta su salde basi, che nutre quanto è sul suo dorso […]. Da te le figliolanze feconde e le fertili messi, o venerabile Dea, tu puoi dare agli uomini i beni, li puoi togliere; e quello beato, che tu vuoi d’onore colmare, o Dea: gran copia di doni egli avrà d’ogni specie”,
*Avvocato e scrittore
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