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La palude dei rapporti ‘ndrangheta-Servizi e gli uomini di Gladio reclutati in una struttura «creata dai clan»

L’informativa depositata dalla Dda illumina i rapporti tra i due mondi. «Soldi dei rapimenti divisi tra cosche e 007». La mediazione del boss nel 1991 e i milioni dello Stato per gli informatori

Pubblicato il: 26/11/2021 – 7:18
di Pablo Petrasso
La palude dei rapporti ‘ndrangheta-Servizi e gli uomini di Gladio reclutati in una struttura «creata dai clan»

REGGIO CALABRIA È esistito un terreno comune – sarebbe meglio dire una palude – frequentato da apparati deviati dello Stato e dalla ‘ndrangheta. Un’area in cui i due sistemi si sarebbero scambiati favori. L’informativa depositata dalla Dda di Reggio Calabria nell’appello del processo ‘Ndrangheta stragista mette insieme alcuni tasselli di un mosaico vasto e ancora incompleto. Che spazia dalle riunioni masso-mafiose nella sperduta periferia della Locride e lambisce bombe eversive (vere) e finti ordigni piazzati – secondo l’ipotesi di accusa – per costruire carriere politiche. In quella palude i servizi segreti avrebbero collaborato con i clan nella stagione dei sequestri, ottenendo fondi neri da utilizzare nelle loro attività coperte. Avrebbero goduto di vie preferenziali per avere accesso ai boss nelle carceri. È un percorso tortuoso, fatto di strutture di raccordo necessarie a tenere insieme i due mondi. 

L’appunto dello storico: uomini del livello “ristretto” di Gladio scelti nella Falange armata

Uno dei tasselli del mosaico spunta fuori dall’archivio di Giuseppe De Lutiis, storico dei servizi segreti scomparso nel 2017. È lì che gli investigatori trovano un «documento di lavoro» che tratta dell’«acquisizione di ulteriore documentazione da parte del Sismi riguardante il noto elenco dei 30 e il caso Gladio in generale». Gli appunti dello studioso, forse lo «stralcio di un’informativa all’attenzione delle commissioni parlamentari d’inchiesta (non si esclude possa trattarsi di un atto, a oggi, non divulgato)» analizzano «il reclutamento del personale di Gladio», la struttura promossa dalla Cia per prevenire una possibile invasione dell’Europa occidentale da parte dell’Unione sovietica.

L’appunto di De Lutiis con il riferimento alla Falange armata (Fal. Arm., in basso)

Sono tre i distinti bacini di reclutamento descritti nel documento: «tre livelli», riporta De Lutiis, il «più riservato e ristretto» dei quali parrebbe correlato alla sigla Falange Armata. Lo storico offre una descrizione grafica dello schema, al centro del quale compare un cerchio rosso, che «fa riferimento alle seguenti parole abbreviate, inserite dentro un cerchio con scritto Sismi: “uff. contr.e sic.”, seguita dal numero 15 e, ancora “Fal. Arm.” seguita dal numero 15. È evidente che la prima abbreviazione rimandi all’Ufficio controllo e sicurezza mentre la seconda alla sigla Falange armata. È a questo punto che bisogna cercare un’altra tessera del mosaico.  

«Falange armata costruita “in laboratorio” dalla ‘ndrangheta»

Umberto Mormile

Umberto Mormile era l’operatore carcerario che si era accorto delle uscite premio di un detenuto “particolare” del carcere di Opera, Domenico Papalia, vertice dei clan di Platì e non solo. Papalia viene indicato dal pentito Annunziato Romeo – in un interrogatorio davanti all’allora pm Roberto Pennisi – come «rappresentante nazionale della ‘ndrangheta», un modo un po’ naif per spiegare il peso del personaggio. Quando Mormile si frappone tra Papalia e i suoi privilegi, gli vengono offerti – lo raccontano ancora i pentiti – 30 milioni. L’operatore carcerario, però, rifiuta e risponde con una frase che gli costa vita (in apertura di servizio una foto scattata dopo l’agguato a Milano): «Non sono dei servizi».

Papalia, dichiara il collaboratore di giustizia Vittorio Foschini, prima di eliminare Mormile precisa «che bisognava parlare con i servizi visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia, ndr). Ne seguì che Antonio Papalia, come ci disse, parlò con i servizi che, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una sigla terroristica che loro stessi indicarono». Quella sigla è proprio la Falange armata, «costruita – riporta ancora l’informativa – in “laboratorio” dalla ‘ndrangheta su input di frange deviate dei servizi segreti». 
È Antonio Schettini, killer di Mormile, a definire la Falange armata una «creatura della ‘ndrangheta (…) creata per sopperire alla mancanza… diciamo degli approvvigionamenti derivanti dai sequestri di persona». Da questa struttura, dunque, Gladio avrebbe attinto la “crema” dei propri membri, il livello più riservato, stando all’appunto di De Lutiis. 

«I Servizi ci mangiavano con i sequestri»

A cosa serva la Falange armata, Schettini lo spiega negli uffici della Criminalpol di Milano nel 1996. Racconta che l’esigenza di creare questa struttura si pone nel momento in cui sorge il divieto «di fare sequestri di persona in Calabria». Prima di allora, nei «riscatti da un miliardo, i sequestratori prendevano 500, gli altri 500 li prendevano questi apparati che servivano per finanziare altre attività. Venuto meno questo bisognava creare qualcosa, un diversivo dove attingere i fondi». Il pentito Nicola Femia è ancora più esplicito: «I Servizi ci mangiavano con i sequestri… se arrivavano cinque miliardi, due miliardi se li prendono i Servizi e una parte invece andava a chi gestiva il sequestro». Una volta posto fine a questa dinamica, nascerebbe – per compensare e trovare nuovo sostentamento – la Falange armata. 

Il sequestro Ghidini, la mediazione del boss e i milioni dello Stato per gli informatori

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È un sequestro che provocò quasi una guerra di mafia a evidenziare il meccanismo e i contatti tra pezzi dello Stato e uomini della ‘ndrangheta. Roberta Ghidini, figlia di un industriale bresciano, viene rapita il 15 novembre 1991 e rilasciata un mese dopo a Gioiosa Jonica. Si scopre che nel commando di sequestratori c’è Vittorio Ierinò, membro di una famiglia mafiosa della Locride. Lo Stato reagisce e prende il controllo di tutta la fascia jonica reggina, mettendo in crisi i traffici di droga delle cosche. Non basta ancora: per liberare la donna c’è bisogno dell’interessamento del boss Vincenzo Mazzaferro, «uscito appositamente dal carcere per un permesso premio». Il racconto del collaboratore di giustizia Nicola Femia viene riscontrato dai carabinieri. È l’allora dirigente della Squadra mobile di Reggio Calabria, Vincenzo Speranza, assieme ad altri soggetti istituzionali, a condurre la trattativa con Mazzaferro come intermediario, «con la transazione di un ingente quantitativo di denaro consegnato da Speranza – secondo quanto dallo stesso dichiarato – al fine di foraggiare gli “informatori” che avrebbero favorito le indagini». Una parte del denaro, però, avrebbe preso «un tragitto diverso»; la conseguenza è la condanna a morte di Mazzaferro, «platealmente eliminato nella piazza» di Gioiosa Jonica, «paese di cui si sentiva signorotto rispettato ed “intoccabile”». Come Mazzaferro venne contattato per fare da intermediario è, almeno agli atti, un mistero: non esistono, almeno ufficialmente, colloqui carcerari tra il boss e «soggetti istituzionali» in quel periodo né «sono stati rilevati incontri con il legale che aveva fatto da tramite». Un dettaglio non da poco: qualcuno – personale dei Servizi? – ha certamente contattato il capoclan. 

I legami tra il gruppo di Archi e i Servizi

Dalla palude dei sequestri di persona a quella dell’ordigno rinvenuto a Palazzo San Giorgio nell’ottobre 2004 (ve ne abbiamo parlato qui). Il 4 giugno 2013, il detenuto Antonino Parisi compare davanti all’attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Dice di aver appreso dettagli sul tritolo trovato nei bagni del Comune da un detenuto nel carcere di Padova, un uomo appartenente alla ‘ndrangheta che avrebbe «i numeri di telefono del Sismi». L’operazione del tritolo sarebbe stata portata a termine da un «gruppo di soggetti di Archi (quartiere di Reggio Calabria, ndr) collegati alla ‘ndrangheta, che ottenevano informazioni da soggetti corrotti dei servizi». E ritorna il nome del questore Speranza, che – il racconto è dell’artificiere chiamato per rendere innocua la bomba, che si scoprirà essere priva di innesco – avrebbe seguito, in quelle ore concitate, «tutte le operazioni (di rimozione, ndr) in prima persona».

La sede del Comune di Reggio Calabria

I 700mila euro del Comune a Schirinzi, sospettato per l’ordigno in una nota “scomparsa”

Sono i giorni in cui le informative dei Servizi segreti segnalano il rischio di un attentato contro l’allora sindaco di Reggio Calabria, «ideato e organizzato dalla cosca di ‘ndrangheta Iamonte». E, invece, secondo Parisi «nell’anno 2004, mese di novembre, tre o quattro giorni prima che l’onorevole Berlusconi arrivasse a Reggio, un appartenente al Sismi decideva di simulare un attentato al sindaco di allora Giuseppe Scopelliti». Dopo l’episodio, l’allora commissario Francesco Oliveri verga una nota «il cui contenuto sembrerebbe non essere mai stato portato all’attenzione dell’autorità giudiziaria». Segnala che l’affaire del tritolo potrebbe essere riconducibile a Giuseppe Schirinzi, personaggio «vicino al sindaco» ed ex militante di “Avanguardia nazionale”, fondazione di estrema destra. Schirinzi, che sarebbe anche maestro massone della loggia “Zephyria”, ha anche organizzato per alcuni anni la “Regata di Ulisse”, per la quale la giunta di Reggio lo avrebbe sovvenzionato con 700mila euro. (p.petrasso@corrierecal.it)

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