REGGIO CALABRIA «Il cugino di Paolo De Stefano (l’avvocato, ndr), Totò Delfino e Domenico Papalia sono i tre cervelli della ‘ndrangheta in Calabria». Quello del pentito Annunziato Romeo è un vecchio interrogatorio – risale al 16 maggio 1996 – ma aiuta a contestualizzare i legami della ‘ndrangheta di Platì e le sue proiezioni nelle istituzioni. La Dda di Reggio Calabria ne ha fatto uno dei perni dell’informativa depositata di recenti nell’Appello del processo ‘Ndrangheta stragista. Perché, davanti al magistrato Roberto Pennisi, il collaboratore di giustizia offre «un contributo giudiziario relativo a temi di odierna attualità ove erano emersi temi che, a quella data (poco più di due anni dopo le stragi continentali) non avrebbero potuto trovare una correlazione così determinante e netta». Non ci sono, nelle parole di Romeo, «condizionamenti mediatici». Egli illustra per la prima volta «la figura dicotomica di Domenico Papalia come una sorta di “Giano bifronte”: massimo referente della ‘ndrangheta di Platì da una parte e, per altro verso, rappresentante nazionale della ‘ndrangheta tutta».
Non basta: Romeo aveva «introdotto anche un nuovo tema di interesse investigativo, relativo alla collocazione verticistica della ‘ndrangheta di un congiunto del generale (Francesco, ndr) Delfino, Antonio, in grado di controllare anche l’amministrazione locale». Il racconto del pentito, 25 anni fa, tocca i collegamenti della ‘ndrangheta «con i potentati massonici (emersi in modo granitico agli atti del processo Gotha, attribuendo, in questo scenario, una collocazione di vertice al Delfino, asseritamente da ritenersi sovraordinato a soggetti del calibro di “Don Stilo” e “Peppe tiradrittu”, – già accreditati nella storiografia giudiziaria quali referenti indiscussi della massoneria legata alla ‘ndrangheta, avente come rendez vous di riferimento, la ‘ndrangheta di Africo».
Totò Delfino, dice Romeo, «è un massone e quello lì era il suo obiettivo, prendere tutta la strategia in mano lui e fare di Platì l’epicentro della ‘ndrangheta in Calabria, per essere rappresentante praticamente. Perché lui aveva appoggi politici, appoggi in Magistratura e tante altre storie, quindi era una persona molto importante».
Che si tratti del “padre degli africesi” o di religioso legato alla ‘ndrangheta, don Giovanni Stilo – scomparso nel 2000 – compare ancora negli atti giudiziari. Nelle parole di Romeo, è al parroco e al boss Giuseppe Nirta, «rappresentanti di questa massoneria nella Locride» che vanno ricondotte le strategie dei clan nell’area. A Delfino, invece, il pentito attribuisce «cointeressi istituzionali» con «un magistrato reggino» e «rapporti di collegamento con la Piana dei Piromalli». La sua sintesi, riletta alla luce dei procedimenti che si sono susseguiti nel corso degli anni e dell’emersione dei rapporti tra logge deviate e cosche, è estremamente attuale: «La ‘ndrangheta è il braccio armato; la massoneria o le persone influenti come Totò Delfino sono il cervello. Sono loro che manovrano, la Camera ha il suo tornaconto, altrimenti non glielo farebbe (fare), ma credo che tutti i paesi locali vadano in cerca di un personaggio così importante, come ce l’ha Platì, e cioè Totò Delfino».
A quei temi, Romeo non sa come «sia combinato» il “locale” di Platì. Di sicuro, negli anni ai quali si riferisce il suo racconto, quel clan «era il numero uno in Calabria». Era «il più compatto, il più prestigioso, il più forte». Nella strana concezione di prestigio della ‘ndrangheta, quell’area della Calabria conta più di altre «perché avevamo Domenico Papalia e Totò Delfino… cosa voglio dire: i capi degli altri locali sapevano che il locale di Platì era questo gruppo con altre persone o con altri gruppi».
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