LAMEZIA TERME Si spacciavano al telefono per il fratello Domenico perché era lui il legale rappresentante della Ottantasei srl, la società che si occupava di abbigliamento e che vantava negozi a Vibo e Lamezia Terme. Che fossero telefonate con i fornitori, come la maison Gucci, o con altri interlocutori, dall’altra parte del telefono doveva rispondere Domenico Artusa, anche se a parlare era Mario o il fratello Umberto Maurizio Artusa. Domenico Artusa, in realtà nella vita si occupava di tutt’altro, prevalentemente attività agreste.
Secondo l’accusa – cristallizzata nel processo Rinascita-Scott – gli Artusa volevano rimettersi in sesto dopo un sequestro per bancarotta fraudolenta e un’interdittiva che vietava loro di esercitare attività imprenditoriale. Per farlo non solo avrebbero intestato fittiziamente una nuova società al fratello Domenico ma avrebbero anche riacquistato liquidità rivolgendosi a esponenti delle criminalità organizzata vibonese, in particolare al boss Luigi Mancuso, al capocosca di San Gregorio D’Ippona Saverio Razionale e all’imprenditore, considerato vicino ai Mancuso, Gianfranco Ferrante.
Ma procediamo con ordine.
Avevano subito un sequestro, nel 2013, gli imprenditori Mario e Umberto Maurizio Artusa, imputati nel processo Rinascita-Scott con l’accusa di essere vicini e partecipi alla cosca Mancuso di Limbadi. Non solo, poco dopo il sequestro, nato da un’indagine per bancarotta fraudolenta, vennero raggiunti da una misura interdittiva, da parte del Tribunale di Vibo Valentia, che vietava loro di esercitare qualunque attività imprenditoriale.
Per poter portare avanti le proprie attività nel settore dell’abbigliamento, Mario e Umberto Artusa, stando alle indagini, il 6 ottobre del 2015 hanno costituito la società Ottantasei srl nella quale fecero risultare legale rappresentante il fratello Domenico Artusa. Ma mentre il fratello era dedito a tutt’altra attività – racconta in aula il maresciallo capo del Ros Vincenzo Franco – e si occupava di «lavori manuali, attività di campagna, tanto che gli stessi fratelli lo chiamavano per pulire giardini», erano Mario e Umberto a mettere in atto le procedure per aprire la società, a far fare al fratello un vaglia per il versamento del capitale sociale e a stabilire l’oggetto sociale, ossia l’impresa nel settore dell’abbigliamento. Il maresciallo Franco afferma – rispondendo alle domande del pm Annamaria Frustaci – che l’attività tecnica di indagine ha permesso di accertare che erano Mario e Umberto Maurizio Artusa a gestire la società Ottantasei srl, a provvedere alla scelta dei capi d’abbigliamento e a gestire il personale. Sono loro a mettersi in contatto con lo studio notarile Scordamaglia per chiedere quali documenti produrre. Avevano scelto il nome della società, ossia Ottantasei «come suggerito dal notaio stesso», dice il maresciallo. È Mario Artusa, risulta dalle intercettazioni, a chiamare il commercialista per chiedere informazioni sull’apertura della partita Iva e affermare: «Stiamo costituendo la società». Domenico Artusa non interviene in nessuna conversazione relativa alla nuova ditta, dice il maresciallo Franco.
Anche se intestata al volto “pulito” della famiglia la Ottantasei faticò ad aprire un conto in banca. Tale Salvatore non voleva aprire il conto corrente alla società. Umberto Artusa non si spiega perché. «Per i trascorsi… per i cosi… per i trascorsi della famiglia, no?», gli risponde il suo interlocutore. Secondo il maresciallo del Ros il conto corrente poi venne aperto «non si sa presso quale istituto di credito».
Il problema portato dai guai giudiziari, oltre al divieto di praticare attività imprenditoriale, era anche quello della mancanza di liquidità. È su questo punto che si incrociano le strade degli Artusa con la criminalità organizzata vibonese. «Non avevano liquidità di loro proprietà – racconta Franco – e non erano in grado di ottenere finanziamenti», visto che non avevano credibilità presso le banche. Ad aiutarli sarebbero stati Luigi Mancuso, Saverio Razionale e Gianfranco Ferrante. Quest’ultimo avrebbe elargito agli Artusa la somma di 50mila euro simulando la compravendita di un immobile. L’immobile era di Mario Artusa ma venne intestato fittiziamente alla sorella Vittoria – prosegue il maresciallo del Ros – per concludere la finta compravendita. In realtà in quell’edificio Mario Artusa avrebbe continuato ad abitare. L’idea della simulazione della compravendita sarebbe stata suggerita da Saverio Razionale. I soldi poi sarebbero passati da Vittoria Artusa a Domenico Artusa, ovvero alla Ottantasei srl. Secondo le indagini, il denaro doveva servire per acquistare l’immobile a Lamezia Terme dove si trovava la sede della precedente società degli Artusa, la A srl, in via Giovanni Nicotera. La proprietà dell’immobile apparteneva alla famiglia Miceli. I 50mila euro però non garantiscono l’acquisto della struttura. Nascono dissidi con i Miceli e a sedarli sarà l’interessamento del boss Luigi Mancuso.
Durante una conversazione tra Pasquale Gallone, luogotenente del boss Luigi Mancuso, e Giovanni Giamborino, anche lui uomo di fiducia di Mancuso, Giamborino chiede a Gallone se Ferrante avesse una partecipazione solo sull’attività degli Artusa a Lamezia Terme o anche su Vibo Valentia. Gallone risponde che la partecipazione era solo su Lamezia Terme. Secondo le verifiche effettuate dai carabinieri tra i dipendenti della Ottantasei srl risultavano non solo Mario e Umberto Artusa ma anche il fidanzato della figlia di Gianfranco Ferrante. (a.truzzolillo@corrierecal.it)
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