TRENTO Nuovi elementi sul caso di Sara Pedri, scomparsa lo scorso 4 marzo, dopo il ritrovamento della sua auto in località Mostizzolo a Cles, in provincia di Trento, nelle vicinanze del ponte che sovrasta il torrente Noce. Un luogo tristemente noto per i suicidi. La 31enne ginecologa originaria di Forlì, ex dottoressa del reparto di ginecologia dell’ospedale Santa Chiara si era dimessa dall’azienda sanitaria di Trento, dov’era arrivata il 16 novembre 2020. La battaglia della famiglia inizia il successivo 12 giugno, quando la famiglia, difesa dall’avvocato Nicodemo Gentile, presenta una memoria in procura sostenendo che la giovane venisse «verbalmente offesa sul posto di lavoro, lasciata per turni interi a non fare niente e definita incapace». Motivi che l’avrebbero spinta a compiere il gesto estremo. Il successivo 18 giugno viene aperta un’indagine interna dall’azienda sanitaria trentina, ma«i primi elementi escludono collegamenti con i fatti accaduti nel contesto lavorativo». Rimangono delle ombre sul caso tanto che il 2 luglio, il direttore dell’azienda sanitaria, Pier Paolo Benetollo, rimette il suo mandato. Cinque giorni dopo viene confermato alla guida ma il 10 luglio il manager lascia. Seguirà il trasferimento del primario di Ginecologia, Saverio Tateo, in servizio nell’azienda da 11 anni, che si definirà «vittima di una campagna diffamatoria». Ma il 10 agosto i carabinieri del Nas ipotizzano il reato di maltrattamenti e chiedono alla procura di Trento di iscrivere nel registro degli indagati l’ex primario Saverio Tateo e la vice Liliana Mereu. Sono 14 le persone, tra medici e infermieri, che avrebbero subito vessazioni sul lavoro. Compresa Sara Pedri. Come riporta Repubblica, proprio alcune di quelle persone chiedono oggi di essere sentite per raccontare cosa succedeva nel reparto di ginecologia e ostetricia diretto da anni dal primario Saverio Tateo e dalla sua vice Liliana Mereu.
«Alla sua scelta – dice la sorella di Sara Pedri, Emanuela – bisogna dare un valore condiviso o tutto è vanificato. Bisogna parlare, sensibilizzare». Lo scorso 12 dicembre diversi monumenti e palazzi delle istituzioni si sono illuminati di verde in occasione della giornata nazionale per le persone scomparse. Anche la casa di Sara, per una sera, aveva lo stesso colore.
«Sara non è scomparsa, sappiamo che c’è stato un gesto estremo. Lei è in fondo al lago. Ma poteva essere salvata, è la certezza più grande che ho, il motivo per cui faccio questa battaglia. Se mi fossi fatta calpestare dai sensi di colpa non sarei arrivata fin qui. Il dolore è un lusso. A quella scelta, tutta sua, ora bisogna dare un valore, condiviso da una massa. Oppure tutto è vanificato». La 45enne, nella lunga intervista rilasciata a Repubblica racconta l’ultimo periodo di Sara, la sua carriera fino ad allora, e la «tossicità dell’ambiente trentino». Di ritorno a casa, la sorella aveva notato che «aveva person 7-8 chili, se ne stava accovacciata in un angolo». In una lettera di dimissioni informale voleva spiegare ai superiori il perché del proprio malessere: «Proprio adesso che si diventa grandi, io non riesco a proseguire», riporta un estratto della lettera. «Lei – dice la sorella – è morta delle paure che le hanno fatto venire: se non eri in grado di lavorare in quel reparto, non potevi farlo da nessun’altra parte». Poi il trasferimento a Santa Chiara di Cles comunicato con una telefonata. «Venne parcheggiata in un consultorio a dare farmaci. Attenzione, non sminuisco quel ruolo, ma quando una persona subisce quello che ha subito Sara, quando le riempi la testa di cavolate sul tuo reparto dicendo che se non puoi lavorare lì non puoi farlo da nessun’altra parte, pensi che tutto il resto è nulla, che non vali niente». Segue il licenziamento e dopo tre giorni la scomparsa. La sorella chiede oggi giustizia convinta che Sara potesse essere salvata.
«La grandissima super testimone di questa storia è la messaggistica di Sara, – spiega il legale della famiglia a Repubblica – che ci parla di quello che è successo. Sara non aveva motivo di togliersi la vita se non per il mobbing. C’è un prima e un dopo il suo arrivo a Trento. E questo ci dice con forza che qualcosa è successo in quella struttura. Anche prima del suo arrivo, in reparto esisteva un ambiente esplosivo, patogeno. Persone che avevano vissuto vessazioni e angherie».
«Ci siamo resi conto – aggiunge – che la famiglia è stata oggetto di una quantità veramente importante di informazioni, contatti spontanei da parte di una robusta molteplicità di soggetti, dai medici alle ostetriche. Volevano parlare. Usare il sacrificio di Sara come grimaldello. Parole dirette, forti, pesanti. Abbiamo raccolto in modo sistematico ogni valutazione».
Vengono messi a disposizione della famiglia alcuni messaggi inviati da Sara: “Non mi sento all’altezza di quello che mi viene richiesto e sono terrorizzata. Sono lasciata sola a prendere decisioni, non è semplice. Per il momento ce la metto tutta e vado avanti…”. Ma anche: “Qua è dura. Pretenderebbero che stessi qua 12 ore tutti i giorni. Poi mi hanno consigliato di stare zitta e di non lamentarmi mai se voglio stare bene in questo posto, quindi ubbidisco e basta! Ieri però sono andata in crisi…non te lo nascondo”. Sara si dà la colpa di una serie di circostanze accadute in quel frangente sentendosi inadeguata al ruolo. “Avranno pensato che la ‘terroncella’ andasse subito raddrizzata”. E si rivolge alla sorella manifestando la sua “paura di tutto ultimamente”.
“Sono stata sopraffatta dal peso della responsabilità e dal terrore di nuocere agli altri. Il terrore mi acceca. Non so se a Catanzaro non ho imparato niente. Ma se anche fosse che qualcosa l’ho imparato, non ho il coraggio di metterlo in pratica qua catapultata in un mondo così diverso”. E il primo marzo scrive: “Non ne posso più Manù”.
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