REGGIO CALABRIA Il 16 dicembre di due anni fa, durante il blitz che portò all’arresto di quattro persone per l’omicidio del 21enne Salvatore Battaglia a Piscopio, nel Vibonese, i militari trovarono un kalashnikov di legno perfettamente intagliato. Un “regalo” in uso ai bambini in un contesto diverso dagli altri.
«Liberi di scegliere si rivolge soprattutto alle donne e ai minori cresciuti in contesti difficili. È una sfida culturale: le mafie vanno combattute con le forze dell’ordine e la magistratura quando ci sono presunte condotte di reato. Noi, come società civile, dobbiamo prevenirle consentendo a queste persone di conoscere altro rispetto a quel “mondo”». Enza Rando, avvocato e vicepresidente dell’associazione Libera, ha seguito fin dal principio il progetto nato da un’intuizione del tribunale minorile di Reggio Calabria e in particolare dell’ex presidente Roberto Di Bella, oggi a Catania.
Un’iniziativa «pionieristica», che come tale ha incassato importanti risultati. Parlano i numeri. Dal 2012 ad oggi il progetto è arrivato a interessare oltre 100 minori, 25 donne e 30 nuclei familiari. «Se dovessimo fare un resoconto, – racconta Enza Rando al Corriere della Calabria – sarebbe positivo. Potremmo definirlo un progetto “educativo” che ha una visione molto in avanti. Osa ragionare su minori che non hanno altre possibilità dacché cresciuti in contesti complessi».
«L’idea di fondo è che il minore, quando possibile, debba rimanere nel suo territorio. In questo senso è necessario che tutte le agenzie educative e i servizi sociali facciano la loro parte per restituire a questi bambini una vita normale affinché non venga loro sottratta la fanciullezza o il diritto al gioco». Tra le obiezioni fatte nel corso del tempo, quella secondo cui allontanare i minori dalla Calabria rischia di diventate l’unica alternativa. «Non è così. – rimarca l’avvocato di Libera – Solo nei casi estremi, in cui non ci sono le condizioni, Liberi di scegliere prevede l’allontanamento dei minori da quei contesti. Viene offerta loro l’opportunità di rimanere bambini e crescere coi tempi giusti, senza essere “adultizzati”».
Ci si muove su un confine sottile e di estrema delicatezza, che spesso richiede percorsi lunghi senza nemmeno una garanzia di riuscita. La “scelta” finale spetta sempre al diretto interessato o alla famiglia. «Non si sottrae nulla alle famiglie, anzi, si dà», Enza Rando rimarca il carattere educativo del progetto, che non può e non deve tradursi in un’imposizione al contrario. «Liberi di scegliere – dice – non è un progetto punitivo: va visto da vicino, la legalità è fatica e complessità. È un percorso guidato, seguito, attenzionato. Un “accompagnamento insieme”. Di fondo non c’è una “dittatura culturale”. Al bambino viene fatta conoscere la Costituzione e il rispetto reciproco; i diritti e i doveri».
Il protocollo scaturito dal progetto interessava inizialmente due ministeri. L’ultima versione è stata stipulata il 31 luglio 2020 e coinvolge ministeri della Giustizia, dell’Interno, Miur e Pari opportunità, la Direzione nazionale antimafia, la Cei e appunto l’associazione Libera. Il principio è quello di intervenire laddove i servizi e le strutture dedicate ai minori siano carenti; coinvolgere i genitori nel tentativo che il percorso sia condiviso e accompagnato. E come dichiarato dal giudice Di Bella, il tutto non si traduce in un «furto di bambini», né alla base c’è un’azione “rieducativa”, ma solo «un modo diverso di affrontare il problema della criminalità». Bisogna quindi fare un distinguo: Liberi di scegliere interviene (almeno per i diretti interessati) in fase preventiva. Ma «si era messo in conto di dover intervenire anche in fase successiva, quando ad esempio il minore abbia già commesso reati». In questi casi lo Stato mette a disposizione istituti come la “messa alla prova”.
Esempio pratico è la dibattuta storia di Rocco Molè, 26enne rampollo dell’omonima “famiglia” di Gioia Tauro. Molè viene arrestato per associazione mafiosa e reati in materia d’armi nell’operazione “Mediterraneo”. L’attività d’indagine partiva dal 2010, quando non aveva ancora compiuto 16 anni. Oggi, per la Dda di Reggio Calabria, è il «reggente della “famiglia”», dopo morti e arresti “illustri”. Nel mezzo, la speranza del giudice Di Bella, che subito dopo l’operazione “Nuova narcos europea” dello scorso novembre aveva dichiarato: «A Rocco Molè abbiamo dato delle opportunità e poi ha scelto. Col progetto Liberi di scegliere cerchiamo di toccare le coscienze, diamo la possibilità di fare delle esperienze diverse, culturali, lavorative, ma poi la libertà è sempre dell’individuo».
Enza Rando ha conosciuto il giovane Molè durante il periodo conclusivo della “messa alla prova”, quando lo stesso «aveva fatto richiesta di seguire un percorso di educazione alla legalità». Da lì la breve esperienza, tra Lombardia e Piemonte, con l’associazione Libera. «Il tribunale di Reggio Calabria aveva fatto una scelta coraggiosa. – dice l’avvocato – Quando ci è arrivata la sua richiesta ci siamo detti disponibili. Anche se il ragazzo aveva già commesso reati gravi poteva essere un’ulteriore dimostrazione della vicinanza dello Stato nei suoi confronti».
«Molte persone cresciute nello stesso contesto di Molè – aggiunge Rando – ci dicono “io ho avuto solo questo e non ho conosciuto altro”; richiamano l’assenza dello Stato. In questo caso invece lo Stato c’è e ti dà un’importante possibilità».
Nel caso di Molè, oltre alla sua volontà e al percorso in sé, avrebbe pesato molto il fattore territoriale. «La madre non ha scelto di seguirlo, ma è rimasta lì. Lui tornava spesso a trovarla e, quando rientrava, ad accoglierlo era rimasta la fama forte del suo cognome».
Concluso il periodo di “messa alla prova”, nel 2017, Molè sceglie di tornare in Calabria. «Quando ha chiesto di andare via gli abbiamo detto che non era ancora pronto. Molto probabilmente, se fosse rimasto all’interno del percorso anche dopo la conclusione di quel periodo di prova, avrebbe avuto un futuro diverso». Il giovane Molè raccontava di voler tornare in Calabria e magari lavorare sui terreni confiscati alla sua stessa famiglia dove oggi si svolgono gran parte delle attività della cooperativa “Valle del Marro”. Ma in quella stessa zona, su altri terreni, Molè aveva interrato 534 chili di cocaina. Verrà arrestato a maggio 2020. «Lo Stato gli ha dato un’opportunità. È stata una sua sconfitta».
C’è poi un’altra storia, che attraverso Liberi di scegliere – se fosse già esistito un percorso simile – forse avrebbe incontrato un epilogo diverso. «Ho conosciuto Lea Garofalo poco tempo prima della tragedia», dice Rando. La testimone di giustizia originaria di Petilia Policastro, nel Crotonese, scompare il 24 novembre 2009 in circostanze che saranno rese note subito dopo la sentenza di primo grado e la confessione di Carmine Venturino.
Ci saranno quattro condanne all’ergastolo tra cui quella dell’ex compagno di Lea e padre della figlia, Carlo Cosco. Denise, nella doppia veste di testimone chiave e parte civile, nel sostenere l’accusa contro il padre e chiedere la verità sulla scomparsa della madre – che per gli avvocati della difesa era «scappata in Australia» – sedeva accanto al suo avvocato, Enza Rando, che oggi dice: «Con Lea lo Stato poteva fare di più».
«La sua storia ha dato forza a molte altre donne, che si sono riconosciute in lei. Alcune fanno oggi parte di Liberi di scegliere». Quella di Lea Garofalo è oggi conosciuta come una storia di rinascita: «Denise ha una sua vita e un suo percorso come tante altre donne che ce l’hanno fatta. Molte persone hanno alzato la testa partendo da un progetto culturale. Ci sono storie dal finale tragico che hanno comunque regalato vita, speranza, coraggio. Come Lea».
Del progetto Liberi di scegliere fanno parte, oggi, le piccole Desi e Ilenia Campolongo, sorelle di Nicola, detto “Cocò”, divenuto volto di una delle storie più atroci della Calabria contemporanea. A giugno 2011 i genitori vengono arrestati nell’operazione “Tsunami” dove le accuse sono di narcotraffico e presunti legami con la “famiglia” Abbruzzese, i così detti “Zingari”, tra le cosche più sanguinarie della provincia di Cosenza. Il piccolo Cocò, tre anni, era stato affidato al nonno Giuseppe Iannicelli, che lo portava sempre con sé come “scudo” per pararsi dai conti in sospeso avuti con la ‘ndrangheta locale. Così anche il 15 gennaio 2014, quando i due, insieme a “Betty”, 27enne compagna di Iannicelli, nelle campagne di Cassano allo Ionio vengono giustiziati e dati alle fiamme all’interno della vettura dove viaggiavano. Cocò viene freddato con un colpo di pistola alla testa. «Uccidere un bambino significa uccidere un pezzo di mondo», commenta Enza Rando. A differenza delle sorelle, la madre, Anna Maria Iannicelli, ha scelto di non far parte del percorso. «Le era stato offerto e sarebbe stato auspicabile che accettasse e accompagnasse le piccole, ma così non è stato». Ciò non toglie che «le sorelline di Cocò mantengano i rapporti coi genitori, con la madre».
«Il percorso che stanno seguendo è tutelante e oggi sono più serene nonostante la sofferenza vissuta».
La storia del piccolo Cocò scosse molte coscienze compresa quella di Papa Francesco, che decise di recarsi in Calabria. Dalla Piana di Sibari, il 21 giugno 2014, pronunciò la scomunica per i mafiosi. Nel frattempo molte cose sono cambiate. La ‘ndrangheta – in particolare nel Cosentino – continua ad avere un incedere violento. Molti stanno ribellandosi al sistema: gli imprenditori che denunciano, la società civile che manifesta, i nuovi collaboratori di giustizia tra cui anche soggetti con “Doti” apicali o rampolli com’è il caso di Emanuele Mancuso. «Al di là delle ragioni che inducono alla collaborazione – dice Rando – si tratta storie di rottura forte. Quando i giovani sono in carcere, soffrono perché potrebbero stare fuori a vivere la loro vita, ma se ne accorgono quando è troppo tardi». Nelle pieghe del racconto, una Calabria in chiaroscuro, che ha «immense bellezze e tra le più grandi contraddizioni».
«Abbiamo incontrato – conclude l’avvocato di Libera, questa estate a Isola Capo Rizzuto per il raduno giovanile nazionale dell’associazione – le storie di tante persone coraggiose. La ‘ndrangheta spesso produce stanchezza nel riballarsi: noi dobbiamo far stancare i mafiosi, che altrimenti utilizzano la bellezza di questi territori per danneggiarli». (redazione@corrierecal.it)
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