ROMA «Spero che prima di lasciare il Quirinale il Presidente Mattarella accolga il mio appello, aiutandomi a essere riconosciuta come vittima delle mafie». A 42 anni, il 10 gennaio prossimo, dal giorno in cui fu sequestrata a Roma, Barbara Piattelli chiede giustizia. Era il 1980, epoca tristemente florida per i rapimenti quando la figlia di Bruno Piattelli, stilista di fama, fu strappata in garage, dall’auto in cui era era appena rientrata a casa con la mamma e tenuta prigioniera per quasi un anno in Aspromonte, territorio della ‘ndrangheta. Dopo decenni di silenzio Piattelli racconta all’Agi, ha appena scritto al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, chiedendo il suo intervento. «Solo il Presidente della Repubblica può fare qualcosa – spiega – dopo che la Prefettura ha rigettato la mia richiesta, per decorrenza dei tempi e anche, perché, hanno scritto, non ho avuto ferite evidenti, un orecchio tagliato o qualcosa di simile. Come se quelle del cuore e dell’anima non contassero».
Quelle ferite Piattelli le ha appena dolorosamente riaperte nel docufilm di Raiplay “343 giorni all’inferno” ideato e scritto da Vania Colasanti, diretto da Letizia Rossi, in cui senza riuscire a frenare le lacrime ripercorre le drammatiche tappe del suo rapimento, uno dei più lunghi della storia italiana. La sua testimonianza si intreccia a quella di suo padre Bruno, scomparso nell’agosto scorso prima di poter vedere il film, di Ariel all’epoca fidanzato di Piattelli e oggi marito, del fratello Massimiliano e degli agghiaccianti audio delle telefonate dei sequestratori ai familiari, con la voce di “Saturno”, l’uomo che dettava le spietate condizioni per il rilascio al padre di Barbara. Ci sono anche i contributi di Nicola Gratteri, procuratore di Catanzaro, e Michele Giuttari, che prima di dirigere la Squadra Mobile di Firenze è stato a capo di quella di Cosenza e di Carlo Verdone, alla cui prima al teatro Eliseo Barbara non arrivò mai, la sera del rapimento, attesa all’ingresso da Ariel.
Piattelli allora era una bellissima e spensierata ragazza di 27 anni, oggi è una donna di 69 affetta dall’artrite reumatoide di cui, spiega, il freddo di quell’anno in Aspromonte, segregata in una grotta, ha sicuramente delle responsabilità: «Ho accettato di aprirmi dopo quarant’anni per sete di giustizia, non avevo mai raccontato niente – chiarisce – neanche a mio padre e a mia madre (scomparsi entrambi, ndr)». Tra loro c’era sempre stato un tacito accordo: per non farla soffrire non hanno mai chiesto e mai saputo delle catene con cui fu legata dopo un tentativo di fuga tra i monti, del freddo di quella grotta in Aspromonte, dei capelli lavati una sola volta in quei 343 giorni, del tempo che non passava ma «senza un libro o un giornale da leggere». I genitori non le chiesero mai nulla per non farla soffrire ulteriormente, stesso motivo del comportamento speculare di lei: «Avevano già patito troppo durante il rapimento, mi dispiace soltanto che mio padre sia scomparso prima di vedere il docufilm realizzato, con la mia testimonianza».
Piattelli ha potuto parlare poco, sottolinea, anche con gli inquirenti: «Sono stata ascoltata da un magistrato soltanto una volta poco dopo il mio rilascio, e i miei rapitori non sono mai stati individuati». Dopo il pagamento di un riscatto «di quasi due miliardi di lire» fu liberata il 17 dicembre 1980 dopo ore di cammino tra i boschi, sul ciglio della statale che porta a Catanzaro e ritrovata terrorizzata, da una coppia di automobilisti.
«I rapitori avevano sopravvalutato le nostre ricchezze, mio padre dovette chiedere un prestito alla banca, ritrovandosi poi paradossalmente a dover pagare anche le tasse su quella cifra. La mia famiglia non si è mai risollevata economicamente».
Ma come si sopravvive psicologicamente a un’esperienza così devastante? Piattelli si è lasciata andare pubblicamente solo adesso, ma è stata aiutata a ritrovare se stessa, racconta, da una psicoterapeuta, quindici anni dopo il sequestro: «Mi convinse mio marito, fino ad allora ero rimasta muta anche con lui. Ma vedeva che soffrivo parecchio. Le nostre figlie avevano 9 e 12 anni e non sapevano nulla – racconta – a un certo punto io e Ariel trovammo la forza di chiamarle: “Bambine venite, vi dobbiamo raccontare una storia”. “Una bella storia?”. “E’ una storia brutta, ma che finisce bene”». Adesso che è nonna e che si è liberata anche pubblicamente da quel macigno che si portava dietro Barbara si porta ancora dietro però ancora tante paure: «Quella di partire e di distaccarmi dalla mia casa, quella della brace, sempre accesa in quell’anno in Aspromonte, quella per le montagne, quella del freddo…».
E in Calabria è più tornata? «Mai».
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