Sin dall’inizio, ho pensato (e scritto) che il virus è venuto fra noi per dirci qualcosa. La natura non scrive lettere, non manda mail, non posta, non twitta. E quando deve comunicare qualcosa lo fa attraverso un linguaggio ben diverso da quello umano. Ne sono ancor più convinto oggi, dinanzi all’ennesimo dilagare del contagio nonostante gli sforzi, al momento inani, da parte della scienza umana di eliminarlo o anche solo contenerlo. Se gli scienziati, come è giusto che facciano, si chiedono “come” sconfiggere il virus, guardando al contingente, io, invece, da uomo comune, mi chiedo, invece, “perché” accade tutto questo. Credo di essermi ormai guadagnato il diritto di discutere di questo problema, avendo contratto la malattia ed avendo fatto tutta la profilassi dell’immunizzazione, così come raccomandata proprio dalla scienza.
In natura nulla avviene per caso, tutto ha un senso. È l’unico senso di quel che accade in natura è la conservazione della vita. Non della “mia” vita, della “tua” o di quella di una determinata specie, ma la vita nel suo complesso, da intendersi come omeostasi, ossia equilibrio vitale, ristabilimento delle condizioni turbate, affinché la vita della biosfera possa perpetuarsi, anche laddove una delle sue specie divenga troppo invadente. E la biologia, che è la scienza che studia la vita, tutto questo lo sa bene, anche se non si preoccupa mai di spiegarlo al grande pubblico: forse non ci sono biologi da utilizzare come star televisive o ai quali affidare una canzoncina in rima.
Sicché, anche nel caso dell’attuale pandemia – che non è certo un problema per la Terra, ma, semmai, lo è solo per l’uomo – siamo di fronte non ad una “guerra” ma ad un fatto intriso di senso, che deve orientare le nostre azioni future.
Per capire come questo possa essere percepito dall’opinione pubblica, ho fatto un piccolo esperimento. Ho interrogato quattro amici di diversa cultura ed estrazione di cui trascriverò qui le risposte, brevemente, senza offrire alcun indizio, per non far capire di chi si tratta.
Il primo di essi è un chirurgo, docente universitario: «Vedremo se il genio umano sarà in grado, anche questa volta, di risolvere il problema». Come in un gioco competitivo fra intelligenze: quella della natura da un lato, quella dell’uomo dall’altro, quest’ultima avvertita come superiore.
Il secondo è uno storico, anch’esso docente universitario: «La storia ci insegna che ogni crisi, anche grave, ha ispirato una grande voglia di riscatto nell’Umanità, alla quale ha fatto sempre seguito una fase di ripresa». Una tesi basata sui cicli storici che non coglie novità in quanto sta accadendo, come se si trattasse di un evento ordinario per quanto “temporaneamente” molto fastidioso.
Il terzo è un imprenditore, ma anche uno studioso di scienze sociali: «Ho fiducia nel genio dell’uomo. Non posso non credere in una via d’uscita prodotta dalla scienza. Ogni posizione diversa non solo è pessimistica ma, direi, oscurantista». Orientamento che definirei neoilluminista, razionalista.
Il quarto è un prete cattolico: «Se l’uomo comprendesse che è parte del tutto, si approccerebbe al problema con maggiore umiltà». Visione ecologica ed olistica, in linea con l’enciclica “Laudato si’” di Papa Francesco.
Con l’aiuto di questo piccolo sondaggio, provo ora ad enucleare sinteticamente quel “perché” di cui parlavamo all’inizio. Prima della pandemia, era incorso in una sopravvalutazione del genio umano perfino un grande studioso e divulgatore come Yuval Noah Harari, in quale nell’incipit del suo best-seller “Homo Deus” uscito nel 2015, fa un’affermazione mai tanto smentita dai fatti: “da qualche decennio siamo riusciti a tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre”. E non è necessario dilungarci qui in esempi che dimostrino l’eccesso di ottimismo di Harari: quello che stiamo vivendo basta ed avanza. Ora, delle due l’una: o abbiamo sottovalutato la potenza natura o abbiamo sopravvalutato il potere dell’uomo.
Sul tema potrei citare qui Karl Popper (1992/1994), il più grande epistemologo (filosofo della scienza) del Novecento, che ha indicato nella confutazione delle tesi scientifiche il fulcro della sua visione teorica.
O Wilhelm Dilthey (1833/1911), altro filosofo, che ingaggiò una dura polemica contro il positivismo scientista. O il nostro Benedetto Croce (1866/1952), che negò valore conoscitivo alle scienze della natura, attribuendo loro solo una funzione pratica. Ma si tratta, in tutti e tre i casi, di filosofi, figure cioè che tendono ad essere escluse dal dibattito mediatico in corso, come si trattasse di ciarlatani. Voglio perciò chiudere con uno scienziato, come quelli di cui si riempiono la bocca i conduttori dei talk televisivi. Si tratta di Konrad Lorenz (1903/1989), premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973, che condusse una dura battaglia contro quello che lui stesso chiamava riduttivismo ontologico ossia la pretesa di ridurre la realtà esclusivamente a ciò che è calcolabile, misurabile, sperimentabile. In una memorabile conversazione proprio con Karl Popper, raccolta in un libro del 1985 ora pubblicato in Italia da Bompiani, Lorenz ebbe a dire, a proposito della prosopopea riduzionista: «È necessario mettere sotto il naso degli uomini il fatto che essi da ogni livello raggiunto dall’evoluzione possono andare verso l’alto, ma anche verso il basso e che non è scritto da nessuna parte che l’uomo non sia già adesso all’apice della sua evoluzione e che non stia per perdere la sua individualità, nella massificazione, e che le conoscenze e gli sviluppi della scienza ristagnino e che tutto proceda in direzione di un orrendo sistema di termiti [intendendo probabilmente per termiti degli automi demolitori – n.d.r.-]». Ma, all’accusa di pessimismo che gli veniva rivolta dal moderatore del dibattito, Lorenz rispose: «No, al contrario [la mia] è un’esortazione a guardare in faccia alle possibilità e ad utilizzare le opportunità. […] Niente è già stato e tutto è possibile». Ecco, a me pare che nell’ottica dell’epistemologia evoluzionista (così viene chiamata quella di Lorenz e di Popper), per cui «tutta la vita è risolvere problemi» (Popper) e «vivere è imparare» (Lorenz), anche in questo caso, invece di sfoderare la solita prosopopea del genio umano che sconfiggerà il virus, potremmo forse concentrarsi nel decifrare la funzione biologica di questa pandemia, il “perché” essa giunge ora, alla vigilia di importanti rivoluzioni in campo tecnico-scientifico (pensiamo solo alla robotica ed all’intelligenza artificiale), all’acme della crisi ecologica (fra tutti, il surriscaldamento dell’atmosfera ed i cambiamenti climatici). E allora provo a tradurre qui, nel linguaggio degli uomini, il messaggio che mi pare di leggere nella vicenda del virus che sta mettendo a dura prova il genio dell’uomo: «Mio caro sapiens, prova a nutrire più dubbi che certezze, dì ai tuoi scienziati di fare tesoro delle critiche, anzi di autocriticarsi, impara ad ammettere i tuoi errori, accetta, una volta per tutte, l’idea che non sei affatto il padrone del creato ma ne sei solo una parte paritaria e, proprio in ragione del tuo genio, dovresti divenirne attento custode. Laddove per custode s’intende la responsabilità del servo che prima o poi dovrà dar conto all’effettivo padrone (la natura o Dio, per chi ci crede) di come ha trattato ciò che gli è stato affidato. Per questo sono venuto fra voi: per guarirvi, non per distruggervi».
*avvocato e scrittore
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