ROSARNO Nulla si crea da dodici anni a questa parte. Nulla si distrugge nonostante gli sgomberi. Tutto si trasforma in baraccopoli. Un principio che trova ispirazione nella storia che parte dalla così detta “rivolta di Rosarno” del 7 gennaio 2010 ed arriva all’emergenza cronica dei giorni nostri. Il prodotto finito, gli insediamenti di migranti sparsi per la zona industriale e le campagne della Piana di Gioia Tauro (alla storia della tendopoli di San Ferdinando e degli altri insediamenti è dedicato il primo capitolo di questo approfondimento), è frutto anche dalle vicende di dodici anni fa. «Ma la storia dei migranti a Rosarno inizia da molto prima del 2010 e non per caso», racconta don Pino Demasi, oggi parroco di Polistena e referente nella Piana di Gioia Tauro dell’associazione Libera. La storia inizia dalla così detta truffa delle “arance di carta” ed evolve sulla falsariga di problemi, ancora oggi, insoluti: lo sfruttamento lavorativo, l’emergenza abitativa, il diritto di cittadinanza.
Verso la fine degli anni 90 viene ideato un sistema che permetteva l’accesso a finanziamenti europei per l’agricoltura e a sussidi di disoccupazione gonfiati «con la connivenza di tutte le parti sociali in causa, compresa la ‘ndrangheta». In sostanza, i contadini, oltre a trarre profitto dalla vendita delle arance, attingevano – seppur in piccola parte – a contributi dell’allora Comunità Europea erogati in base alla quantità di agrumi commercializzati. Le arance effettivamente raccolte venivano portate alle cooperative che le conferivano a loro volta alle associazioni di produttori. Grazie a questa particolare filiera, la quantità di arance dichiarata si moltiplicava miracolosamente rispetto a quella raccolta cosicché le associazioni potessero incassare i contributi girandone una parte – in proporzione, irrisoria – ai contadini.
Ulteriore fonte di “reddito” veniva garantita ai braccianti disoccupati dall’Inps. A fronte di un’attività lavorativa dichiarata di almeno 102 giorni nel biennio precedente, si poteva accedere al sussidio. Fino al 2000 risultavano almeno 3mila rosarnesi iscritti come braccianti disoccupati sebbene in gran parte svolgessero altri lavori o non lavorassero affatto. Per attuare «l’imbroglio delle “arance di carta”», racconta don Pino Demasi, era comunque necessario raccogliere gli agrumi, quindi bisognava attingere a manodopera che potesse lavorare a basso costo e “a nero”. «Così arrivarono nella Piana “gli uomini di colore”». Secondo un rapporto diramato in quegli anni da Medici Senza Frontiere, Rosarno era arrivata ad ospitare «più di 5mila immigrati di 23 diverse nazionalità», che ne facevano «la terza zona d’Italia ad alta densità di stranieri in rapporto alla popolazione residente dopo Napoli e Foggia».
Servivano braccia, «ma arrivarono persone». Vivevano ammassate in tuguri e ruderi come l’ex Opera Sila e l’ex Esac. Alle prime luci dell’alba venivano prelevati dai “capi neri” gestiti dai clan locali, e portati nei campi dove trascorrevano l’intera giornata lavorativa. «Ho sempre detto – aggiunge il parroco di Polistena – che parte della colpa fu anche nostra. Anche se in buona fede, le organizzazioni di volontariato cattolico e laico, assistendo i migranti con pasti caldi e vestiti, in qualche modo olearono quel sistema». Così fino a che Inps e Comunità Europea non scoprirono l’imbroglio. Un’inchiesta del 2004 porta all’arresto di otto persone: per riscuotere illecitamente centinaia di migliaia di euro di contributi avevano dichiarato 250 camion di agrumi quando invece ne sarebbero partiti solo 12. E così via, i nodi vengono al pettine finché l’Inps decide per una drastica riduzione dei sussidi e la Comunità Europea prevede un nuovo criterio di erogazione dei contributi: a forfait sulla base degli ettari, a prescindere dalla produzione. «Essendo venuto meno il lavoro, i migranti cominciavano a creare “disturbo” ai cittadini soprattutto di Rosarno», dice Demasi. «Non servivano più allo scopo per cui erano stati chiamati e secondo i rosarnesi dovevano andarsene».
Vi è poi un altro aspetto, evidenziato al tempo dallo storico e giornalista Rocco Lentini, che rende ancor più palese la regia della ‘ndrangheta dietro la “cacciata” dei migranti da Rosarno: «La mafia locale era consapevole che senza quei contributi e in assenza di manodopera, i piccoli coltivatori sarebbero andati in crisi e costretti a cedere loro gran parte delle proprietà».
Inizia così un’escalation di violenze e intimidazioni verso i migranti, alcuni dei quali scompaiono misteriosamente, che sempre secondo lo storico erano parte «di un progetto criminale» che culminerà «nella deportazione di un migliaio di “niguri”, una pulizia etnica senza precedenti nella storia dell’Italia democratica».
Per parlare del 2010 bisogna tornare al 2008. «Nei ricoveri di fortuna dove dormivano, due di loro furono colpiti da arma da fuoco. A sparare erano stati “giovinastri” del posto» racconta Giuseppe Lavorato, sindaco di Rosarno dal 1992 e storico esponente del Pci locale. «Sulle già miserevoli “buste paga” dei migranti, i caporali legati alle cosche volevano imporre un racket di 7 euro al giorno». Seguì una manifestazione pacifica per le vie di Rosarno. «I migranti andarono al Comune, alla caserma dei carabinieri, in questura e denunciarono. Ci furono arresti». Un fatto senza precedenti che la ‘ndrangheta «impresse nella sua memoria aspettando il momento giusto per poter colpire quelle persone. E il momento si presentò nel 2010», ricorda Lavorato.
I primi giorni di gennaio venne sparsa la voce, del tutto priva di fondamento, che quattro migranti (due allo Spartimento e due nelle adiacenze del “ghetto” rosarnese della Rognetta) erano stati assassinati. La falsa notizia serviva per fomentare gli altri immigrati che iniziano un corteo verso il municipio. «Quelle persone – ricorda don Pino Demasi – che fino ad allora avevano sempre dimostrato un grande senso dello Stato, scesero in piazza e con molta violenza misero a soqquadro Rosarno». «I figli della ‘ndrangheta non potendo accettare che degli stranieri mettessero a soqquadro la “loro” città e offendessero la loro dignità reagirono iniziando la “caccia u niguru”». Una cinquantina di giovani si radunarono allo Spartimento armati di spranghe e bastoni. «Al capo del “comitato” – ricostruisce Lentini – si poneva Domenico Ventre, ex assessore di destra in una giunta che verrà poi sciolta per mafia». Inoltre «c’erano i rampolli delle “famiglie” della Piana, non solo di Rosarno» come Antonio Bellocco «arrestato per aver tentato di travolgere i migranti con la propria auto». Sempre nel racconto dello storico, il “comitato” si spostò verso il Municipio dove espose uno striscione con la scritta “Andrea Fortugno è innocente”, riferita a un soggetto «arrestato nel dicembre 2008 per aver sparato a quattro immigrati alla “cartiera” ferendone due».
Dal 7 al 9 gennaio Rosarno visse la tensione degli scontri. «Alcuni – sempre nelle parole di Lentini – raccolsero i migranti in casa, li nascosero da quella furia bestiale».
«C’è un fatto», ricorda Lavorato. «Fino a sette anni prima, Rosarno era la città dove si celebrava la “Festa delle fratellanza universale”. Insieme ai migranti sfilavamo per le vie della città ed eravamo sempre a loro fianco». Quello che stava succedendo appariva quasi come un’anomalia. La situazione degenerò al punto tale che il Viminale, per la sicurezza stessa dei migranti, decise che dovevano essere allontanati dalla città.
«Venne chiesto anche a me di mediare», dice il parroco. «Riuscimmo a far capire loro che forse era meglio che andassero via».
Per quella mediazione, Demasi pose una condizione chiara: «Come per le strade di Rosarno nessuno li conosceva, così, ovunque fossero andati, sarebbe accaduta la stessa cosa. Riuscimmo a convincerli». A distanza di anni, il referente di Libera nella Piana di Gioia Tauro ricorda quella notte come «una notte buia»: «Per la prima volta, in un paese democratico come l’Italia, vennero mandate via delle persone. Credevo fosse il male minore, ma credo che quella sera vinse la ‘ndrangheta, non lo Stato. Non a caso ricordo che quando partì l’ultimo pullman i rosarnesi applaudirono le forze dell’ordine, cosa mai successa fino a quel momento».
L’11 gennaio 2010 venne organizzata una manifestazione da una parte della cittadinanza di Rosarno «non per prendere le distanze dalla ‘ndrangheta o solidarizzate coi migranti – dice Lentini – ma per protestare “contro l’immagine di città razzista, mafiosa e xenofoba” data alla città».
Sebbene non riconosciuto e ammesso da tutti, sulla rivolta e sulla “caccia” aleggiava chiaro lo spettro della ‘ndrangheta. «Chi vive in questo territorio – dice don Pino Demasi – sa benissimo che la ‘ndrangheta ha sempre un ruolo. In situazioni di povertà, in situazioni di bisogno, la ‘ndrangheta si presenta come la “mamma buona” e i migranti sono caduti in quell’ingranaggio. Credo che la mano della ‘ndrangheta fosse presente fin dall’inizio». Poi, i riflettori su Rosarno, almeno per quei fatti, sono andati gradualmente spegnendosi.
I migranti vennero portati via dalla città della Piana a bordo di pullman per essere trasferiti in altre località. Nonostante questo, a poco a poco hanno fatto ritorno nella Piana come continua ad accadere ogni anno in prossimità del periodo di raccolta agricola. Ma onde evitare il replicarsi di quei fatti, per loro sono state individuate la prima e la seconda zona industriale sul territorio di Rosarno e San Ferdinando. Altri ancora si sono spostati nelle campagne ed altri “ghetti” come ad esempio quelli sui territori di Drosi o Taurianova. È iniziata così la lunga stagione delle baracche segnata dal filo conduttore del lavoro agricolo che anima la storia fin dal principio. «Non c’è stata la volontà politica di affrontare il problema», dice Demasi. E così «l’emergenza è diventata normalità, segno che abbiamo fallito».
«Qui – aggiunge – l’agricoltura è in tilt e il lavoro vero non esiste. E in una situazione simile dove il lavoro è una chimera, chi è più povero paga sempre di più. Allora credo che il problema da affrontare sia proprio questo: carcare di capire come far risorgere l’agrumicoltura nella Piana, fare in modo che il lavoro sia vero così da risolvere il problema dei migranti».
Dopo anni in prima linea, il parroco si dice «stanco dei “tavoli tecnici”, che non risolvono il problema e non producono soluzioni concrete». Serve un intervento concreto che nasca da un impulso della politica centrale anche in termini di riconoscimento dei diritti e della cittadinanza: «Esistono due leggi sul caporalato, ma per ora sono applicate solo per quanto riguarda gli aspetti repressivi».
I finanziamenti erogati negli anni, molti dei quali dispersi o rimasti inutilizzati non sarebbero comunque serviti ad andare oltre ad eventuali soluzioni “tampone”. «Non abbiamo lesinato – chiosa Lavorato – le iniziative per contrastare la ‘ndrangheta. Ma bisogna vivere quotidianamente la lotta per la solidarietà. I nemici sono molti e non bisogna mai lasciare spazi» a chi «opprime le popolazioni locali e ancor di più i poveri che arrivano da lontano». (redazione@corrierecal.it)
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