Epifania del nuovo anno. Ho deciso di santificare il giorno di festa – secondo l’insegnamento di Henry David Thoreau – con un’erranza in zona Serra del Lepre, fra le montagne di Verbicaro. Avverto telefonicamente il mio amico in loco, Felice Lucchese, angelo custode di queste montagne. Felice è una delle persone migliori che io conosca: sobrio, umile, disponibile, premuroso, altruista, gentile (quest’ultima qualità davvero rara). Per una di quelle che Jung chiamava “coincidenze acausali significative” (ossia non legate da nesso causa-effetto ma significative per la nostra psiche), anche Felice aveva programmato per oggi un cammino nello stesso luogo. “Sincronicità” (come il titolo del saggio di Jung sulle coincidenze) perfetta!
Partiamo con un nebbione fitto ed una pioggerella intermittente. Si prospettano: inzuppata sino alle mutande e visibilità zero. Ma non fa nulla: camminare nella nebbia – e talvolta perfino sotto la pioggia – è un’avventura con gradiente probabilistico: possono presentarsi sorprese estetiche e spirituali inusitate. Occorre solo essere ancora in grado di commuoversi. Gli escursionisti, normalmente, vogliono che tutto sia pianificato, perfetto: per questo riempiamo le schede delle passeggiate di gruppo con informazioni d’ogni tipo; per questo annulliamo le iniziative in caso di meteo avverso. I camminatori post moderni (non tutti, ovviamente) obliterano le emozioni scomode, senza utilità apparente, contrarie alla razionalità pratica e consumistica imperante fra chi vive in città. Felice ed io siamo, invece, di una generazione, in cui si partiva con qualunque tempo. Salvo ripiegare dinanzi a condizioni impossibili (guai ad essere imprudenti in montagna). Ed è così che abbiamo scoperto in quanti modi la bellezza della natura può manifestarsi. Oggi, ad esempio è l’epifania delle nebbie, laddove epifania sta per manifestazione della divinità in forma visibile. Su questo tema ha scritto cose di grande interesse Mircea Eliade.
Felice ci conduce per scorciatoie che solo lui conosce, ma che hanno una logica precisa se osservate sulla mia carta topografica umida e stropicciata. È serio e pensoso mentre segue, con i suoi passi, antichi transiti di pastori. So che in cuor suo rivive ricordi ancestrali, ben più vecchi di lui: è una forma di commozione topografica che capita anche a me quando solco percorsi dove aleggiano fantasmi.
Mi sussurra, con quel suo tono pacato: “Vedi Francesco, cinquant’anni fa – quando accompagnavo mio padre nel pascolo degli animali – questi luoghi erano tutti coltivati: in queste radure spietrate, ad esempio, c’era la segale. Il sottobosco era tenuto sgombro dalle capre. I sentieri venivano manutenuti dai pastori, segnati da piccole tacche fatte con le accette sulla corteccia degli alberi. La montagna pullulava di vita.” Comprendo che mi sta parlando della “prima vita” della montagna. Una vita che durava da millenni. Una vita che finì bruscamente dopo la seconda guerra mondiale Quando contadini, pastori, carbonai, boscaioli, mannisi, acquaioli, emigrarono. Così la montagna morì. Dapprima rimossa nell’inconscio collettivo della gente del paese. Poi anche fisicamente: considerata un’escrescenza senza valore se paragonata alla “modernità” delle città industriali del Nord, ossessivamente elogiata da gran parte degli emigrati.
Gli ontani nella nebbia sono un fine ricamo, i muschi e i licheni sulle pietre e sui tronchi un arazzo sontuoso, la lettiera di foglie un favoloso tappeto. Giungiamo su Serra del Lepre, sempre avvolti da quel mantello grigio e ovattato. Poi, attacchiamo il crinale della Sellata, con Felice a enumerarci le vedute che si godono da lassù, come se le stessimo godendo in quel momento. Sostiamo su uno stretto passaggio fra piccoli pini loricati e ginepri, frane e pietraie, faggi dalle forme bizzarre e grandi cespi di elleboro. Come in un’attesa trepida, onirica. D’improvviso emergono dal nulla rupi, torreggianti e favolose come castelli incantati. Un soffio vitale s’affretta a spingere lontano frattali di nebbia, come un gregge. Il paesaggio si disvela per qualche attimo: ammassi di roccia calcarea forgiata dall’erosione, pinnacoli, pertugi, alberi pensili, pietraie che precipitano verso gli abissi sottostanti. Qualcuno evoca i mondi fantastici di Tolkien. Qualche altro pensa alle dimore degli dei mediterranei. Provo a spiegare che quel che stiamo vivendo è un privilegio raro.
Mentre, in fila indiana, raggiungiamo il piccolo rifugio di pietre che Felice ed i suoi amici hanno costruito ai margini di una radura, mentre tutti osservano stupiti il tetto di zolle d’erba, mentre sento di un giovane pastore che quest’estate, su Timpone Garrola ha ripreso la transumanza, mentre penso che al paese sono venuti a vivere giovani stranieri, mentre ricordo che qui è nata una sezione dal CAI e che centinaia di persone hanno ripreso a frequentare questi luoghi, mentre Felice mi parla di quegli stranieri che gli chiedevano perché non volesse pagarsi per averli accompagnati in mezzo a tanta bellezza, comprendo che Serra del Lepre, La Sellata, Fratta, Sammacosa sono rinate. E che Felice è stato artefice di vita rinnovata: quella della montagna che visse due volte.
*avvocato e scrittore
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