LAMEZIA TERME Una sentenza, quella emessa qualche giorno fa dai giudici della prima sezione penale della Corte d’Appello di Torino, che “prova” e per moltissimi aspetti “certifica” quella che è la presenza consolidata della ‘ndrangheta (anche) in Valle d’Aosta, regione tra le più ricche del paese e dove le ambizioni dei clan calabresi si sono sviluppate attraverso affari illeciti e contatti con soggetti politici.
La presenza della “locale” di ‘ndrangheta ad Aosta, cristallizzata dalla sentenza del processo “Geenna”, è stato però ricostruita attraverso una lunga attività investigativa iniziata nel dicembre del 2014 dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Aosta, e che ha avuto origine dall’indagine “Caccia grossa” – coordinata dalla Procura di Bologna. All’epoca l’obiettivo degli inquirenti era quello di trovare due latitanti considerati “di spicco” della ‘ndrangheta ovvero Rocco e Stefano Mammoliti legati all’omonimo clan di San Luca detta “Fischiante”, e da vincoli parentali ad alcuni soggetti residente in provincia di Aosta. Attività di ricerca per la quale gli inquirenti avevano posto sotto intercettazione i telefoni cellulari di Francesco Mammoliti, condannato a 5 anni e 4 mesi e Giuseppe Nirta (classe 1965) già coinvolti in altri procedimenti tra i quali l’operazione “Minotauro” della Dda di Torino, grazie alle quali sono stati documentati una serie di incontri nel territorio valdostano tra la famiglia Nirta di San Luca e alcuni elementi di origine calabrese, contigui alla ‘ndrangheta, alcuni dei quali vicini alle famiglie dei Facchineri di San Giorgio Morgeto.
Tra le riunioni più rilevanti – secondo gli inquirenti – ci sono quelle organizzate da Giuseppe Nirta, nella pizzeria “La Rotonda” di Antonio Raso, condannato a 10 anni, e quelle nel bar gestito da Giuseppe di Donato, a Sarre. E poi quelle organizzate dal fratello, Bruno Nirta, ad Aosta nel bar “Free time” e ancora nella pizzeria d di Antonio Raso, e gli incontri tra i due fratelli Nirta e Francesco Mammoliti in vari locali della Valle d’Aosta, tutti avvenuti tra maggio e luglio del 2014. Negli spostamenti ricostruiti dagli inquirenti, Giuseppe Nirta faceva spesso riferimento ad Antonio Raso, il gestore de “La Rotonda”, un vero e proprio punto di riferimento per tutti i soggetti di origine calabrese e, poi, gli esponenti politici valdostani.
Quella delle cosche di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta è a tutti gli effetti una “evoluzione” che aveva dato i primi segnali inquietanti tra gli anni ’70 e ’80, tra omicidi ed estorsioni, poi cristallizzata agli inizi degli anni 2000, anche rileggendo vecchi procedimenti attraverso informazioni nuove e circoscritte. C’è ad esempio l’inchiesta “Lenzuolo” – coordinata dalla Dda di Reggio Calabria e condotta dai carabinieri di Aosta che ha fatto emergere un gruppo criminale che di fatto era un’articolazione delle cosche Iamonte e Facchineri, capeggiata da Santo Pansera (deceduto) e Santo Oliverio, il primo come “capo locale”, il secondo come coordinatore della struttura aostana con la “casa madre” calabrese.
«(…) sai cosa era una volta Santo, una volta erano quei quattro amici no, che ti mandavano e rispettavano (…) tu andavi là, ti dicevano per dire no, compare, andate là sopra e comandate voi». «Mimmo Macheda era esponente diciamo… diceva: andate a Pont St. Martin comanda tizio; a Nus comanda Caio, a tale posto comanda Caio, a tale eh… per dire tutta questa gente qua, no, che hanno avuto un nome, avevano un comando no…». È questo uno dei passaggi intercettati dagli inquirenti e che meglio delineano la presenza, in Valle d’Aosta, di una vera locale di ‘ndrangheta ben strutturata e organizzata. In altre conversazioni, poi, Santo Pansera insieme a Giuseppe Neri, un tale Paolo e un’altra persona non identificata parlano di quanto sia importante «rendersi meno visibili possibile» sia per la resistenza della popolazione locale ad accettare le imposizioni e le estorsioni, sia per evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. «Ehhh là è tutto tranquillo, ognuno lavora, casa, lavoro, quando ci vediamo ci sediamo a un tavolo, facciamo una bella ‘ndrina e ci salutiamo un’altra volta». Questo il dialogo tra Santo Pansera e Francesco Cuzzocrea, intercettato il 22 aprile del 2000.
C’è invece una conversazione, quasi simbolica, e che spiega al meglio gli intenti della locale in Valle d’Aosta. Gli interlocutori intercettati sono i due Santo, Pensera e Oliverio, mentre si lamentano a metà estate del 2000 della scarsa “capacità” degli affiliati di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, partecipando alla spartizione dei lavori pubblici. «Aosta non mi hanno mai capito a me – dice Pansera – io gliel’ho detto sempre, siete storti, fai quello che ti dico io… erano tutti ricchi non avevano bisogno di niente, non andavano a lavorare là dentro l’ospedale, da nessuna parte se mi avevano ascoltato… se mi avevano ascoltato erano tutti ricchi». (redazione@corrierecal.it)
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