I calabresi, radicati come gli alberi alla terra d’origine – non per pigrizia ma perché di quella terra si nutrivano e con quella terra costruivano le proprie case in bresti – per secoli «hanno voltato le spalle al mare», fino a quando sul finire dell’Ottocento, soprattutto la crisi agricola, li spinse, prima che sulle spiagge per la cura del sole, verso il porto di Napoli da cui si imbarcavano per le Americhe. Si superavano, così, i circuiti migratori giornalieri, prima intra-comunali (dal paese alla campagna e ritorno) poi – come dimostrato da un’inchiesta francese del 1810 – intercomunali e regionali (sempre dal paese alla campagna e ritorno). Comunque rimanevano coerenti protagonisti passivi dello sballottamento, di terra e di mare.
Alla fine dell’Ottocento cambiano le distanze e l’uso delle braccia, non più per i mercati agricoli interni che esprimevano una domanda attrattiva ma per le industrie e le campagne transoceaniche (Stati Uniti, Brasile, Argentina) superando a denti stretti la paura del mare. Tredici lunghi giorni per raggiungere il porto di New York, un orizzonte lontano che la strada del mare da porto a porto gli poteva prospettare: tra il 1880 e l’inizio della Prima Guerra mondiale partono 250.000 calabresi. L’obbiettivo è una vita nuova, in una terra sconosciuta, ma che era anche una violenza, senza utensili o strumenti di mediazione culturale (nel 1901, su 100 abitanti 79 erano analfabeti), se non le proprie braccia capaci di esprimere solo il linguaggio universale della forza. Partivano con la consapevolezza di essere servi di parole e di alimenti.
Uno sradicamento forzato che fa maturare – scrive Corrado Alvaro – l’«amore disperato per il loro paese, di cui riconoscono la vita cruda, che hanno fuggito, ma che in loro è rimasta allo stato di ricordo e di leggenda dell’infanzia». In realtà, quando emigrano, i calabresi portano con sé quella calabresità che è nel proprio modo di essere, come nel secondo dopoguerra, quando riprende un’altra lunga ondata migratoria verso la Francia, la Svizzera, la Germania, il Belgio, con una dura identità fortemente umanizzata da valigie di cartone assicurate come i salumi al loro interno: conserve di tradizione e soprattutto del pro-fumo delle loro case. In quelle valigie c’è tutto di cui hanno bisogno per lenire il dolore del distacco, e la corda annodata che le stringe diventa una sorta di cordone ombelicale con il luogo di origine.
Le due ondate migratorie hanno tutto in comune: dai prestiti familiari per il biglietto di andata (per il nipote Gaetano è lo zio Marco che provvede e basta la firma con l’inchiostro del sentimento per un “pagherò” scritto sul cuore, al ritorno che poi non c’è mai stato) alle riunioni di nostalgia delle comunità calabresi all’estero, nelle Americhe come nel Nord-Europa. Moltissime andate e ritorni (i più dolorosi a spese dello Stato ospitante), molti dei quali in realtà sono stati viaggi nel tempo per riassaporare quel miracolo che non sono i luoghi di origine di per sé ma la nostalgia della propria giovinezza. I luoghi, i paesi, le case non sono altro che lo scenario di emozioni vissute e che si vorrebbero rivivere, fino a rimanere quasi sempre deluse. Le aspettative sono tante, il cuore batte forte quando si apre il finestrino del “Treno del Sud” e ad Amantea comincia a sentirsi il profumo di paglia, della mietitura appena fatta. Gli odori sono eterni, ma il paese e le sue case no, cambiano. Ma anche chi ritorna è diverso. Due diversità si incontrano, ed è spesso una delusione.
Un dato accomuna le ondate migratorie di ritorno: il desiderio di consolidare il radicamento al luogo d’origine con la costruzione di una nuova casa, più luminosa, più accogliente, più grande, il più possibile lontana dalle altre e diversa da quella in cui hanno vissuto da giovani, per meglio rappresentare il loro nuovo status. Senza rendersi conto che la nostalgia entra in conflitto con questo progetto e che la loro scelta è stata una sentenza inappellabile per il paese sempre più eroso nella sua identità fino a lasciare sconfitta la conformazione originaria con i suoi “vignani”, antichi costruttori di comunità. Questa è stata l’essenza assai contraddittoria del ritorno degli anni Settanta: nostalgia e distruzione dei luoghi delle origini.
Il risultato, purtroppo comune a molti centri calabresi, è che l’emigrazione ha prodotto le due diversità che hanno svuotato di significato il senso e il valore del ritorno, in luoghi non più riconoscibili e incapaci di ri-esprimere le emozioni cercate da un “emigrante” che è un insieme non ben districabile tra antica “calabresità” e modernità ostentata soprattutto nei centri storici, violentati profondamente nella loro struttura identitaria. Col tempo ha perso di valore anche la dignità delle “case americane” della prima ondata, disposte in modo da formare corridoi urbani lunghi e stretti e poco funzionali rispetto la ricercata modernità dei nuovi modelli di vita d’importazione.
Gli emigrati di ritorno carichi di un’identità modificata hanno cambiato, in assenza di una regia pubblica in grado di governare i fenomeni sociali, i connotati della memoria dei luoghi che ispiravano nostalgia, demolendo e ricostruendo, sopraelevando, ampliando e applicando materiali estranei all’identità storica. Forse non ne avevano piena consapevolezza, ma si condannavano da soli a rimanere nella condizione di emigrati in un paese dall’originalità persa dove la nostalgia dura lo spazio di una partita a carte quanto la conservazione malintesa: la “conserva” rimane tutta confinata in una salsa di pomodoro sottovetro e in un barattolo di olive schiacciate.
Un esito complessivo infelice la cui responsabilità è imputabile alla classe dirigente stanziale che non ha saputo frenare l’”andata” e interpretare il fenomeno del “ritorno”, guidando e contemperando le esigenze della modernità con quelle della conservazione identitaria dei luoghi.
*cultore di storia
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