Se non fosse che della vicenda che porterà all’imminente elezione del nuovo Presidente della Repubblica può tentarsi una lettura razionale, sarebbe facile abusare dell’immagine con cui Churchill si interrogava sulle intenzioni dell’Unione Sovietica dopo la spartizione della Polonia: «un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma».
È ormai da diverso tempo che le forze politiche, in vista della scadenza del mandato elettorale del Presidente Mattarella prevista per il 3 febbraio 2022, sono impegnate in grandi e piccole manovre più o meno sotterranee. Dovendo posizionarsi nello scacchiere, sono costrette, tuttavia, a muoversi in un terreno molto scivoloso. Manca nel Parlamento un partito che possa spendere tutto il proprio peso nella partita: il Movimento 5Stelle, che pure rimane la forza politica di maggioranza relativa, si è notevolmente sfilacciato nel Palazzo e complessivamente indebolito nel Paese. Dopo la fiducia al governo Draghi, ha pure subito un’importante frattura. Né si vede chiaramente un king maker, ma solo diversi aspiranti. Un dato, però, è certo: Silvio Berlusconi è tornato al centro della scena politica. E, dopo il vertice del 14 gennaio a Villa Grande, il centrodestra l’ha proposto come il candidato più adatto per autorevolezza ed esperienza a ricoprire il ruolo di Presidente della Repubblica. Che possa essere eletto ai primi tre scrutini, quando cioè è necessario raggiungere il quorum dei due terzi, è da escludere. Che possa riuscirci al quarto, quando è sufficiente la maggioranza assoluta (505 elettori), è difficile. Difficile perché il centrodestra può contare su 451 voti se aggiungiamo a Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, Coraggio Italia e Noi con l’Italia. Il traguardo potrebbe, tuttavia, farsi più vicino se consideriamo altre forze del Gruppo misto e, ancor di più, Italia viva, che su diversi provvedimenti ha votato con il centrodestra. Né vanno sottovalutate le “incursioni” di Berlusconi e dei suoi sherpa nelle truppe avversarie, soprattutto là dove più si temono la fine anticipata della legislatura e le prospettive di rielezione, ben più difficili dopo la drastica contrazione del numero dei parlamentari e la riduzione del peso specifico di qualche forza politica. E, infine, è bene non dubitare delle invidiabili risorse umane di un uomo che è come l’Araba Fenice, capace di risorgere dalle proprie ceneri.
Se non dovesse centrare l’obiettivo dopo il terzo scrutinio, non è da escludere che Berlusconi, non pago della sconfitta, vorrà giocare la sua partita fino in fondo, indicando lui stesso il nome del candidato e guidando in questa direzione il centrodestra. Scenario, quest’ultimo, che non è affatto gradito a Salvini. Se in prima battuta non può opporre un rifiuto a Berlusconi – e addirittura nemmeno prefigurare una exit strategy, senza che la cosa possa apparire, anche solo sul piano estetico, come lesa maestà -, Salvini vorrebbe, però, tenersi le mani libere per giocare in autonomia la fase che dovesse aprirsi dopo il terzo scrutinio: l’elezione del Presidente della Repubblica, a parte tutto il resto, è importante oggi per le forze politiche, perché inaugura un “anno elettorale”.
A volere, invece, tentare, come anticipato, una lettura razionale della vicenda, il nome più adatto per la Presidenza della Repubblica è quello di Mario Draghi. Come avevamo scritto su queste pagine (“Le ragioni della crisi di governo”, 7 febbraio 2021), il compito di gestire da Palazzo Chigi 209 miliardi di euro nel corso di una pandemia e di una crisi economico-sociale non poteva che essere affidato nelle mani di un uomo di sicura levatura e di riconosciuto standing internazionale, qual è l’ex Presidente della BCE. L’uomo giusto per programmare e avviare la gestione del Recovery Fund e tranquillizzare le cancellerie europee, in un momento in cui la Merkel sarebbe uscita di scena e Macron avrebbe dovuto di lì a poco prepararsi ad una non facile sfida elettorale.
Una volta avviata la gestione dei fondi europei, la scelta più razionale sarebbe quella di trasferire il premier in carica al Quirinale per farne una garanzia, autorevole e competente, del corretto impiego delle risorse del Pnrr di qui al 2026. Lo si sottrarrebbe, per questa via, al tritacarne della politica nell’«anno elettorale», che finirà inevitabilmente per indebolire la sua azione di governo, fin qui tenuta mirabilmente in piedi.
Tuttavia, la prospettiva appena indicata accresce nei singoli parlamentari quei timori che Berlusconi, come abbiamo detto, vuole sopire, e in diverse forze politiche la paura di doversi confrontare oggi con il responso delle urne. L’elezione di Draghi a Presidente della Repubblica – al netto dei non insuperabili problemi giuridico-costituzionali che comporta l’elevazione al Colle di un premier in carica (su cui non possiamo qui soffermarci) – apre inevitabilmente la strada alla formazione di un nuovo esecutivo ovvero, mancandone le condizioni, a nuove elezioni. A nuove elezioni potrebbe essere interessato il partito della Meloni, ansiosa di misurarsi con le urne anche per marcare il suo peso elettorale che si immagina, stando ai sondaggi, accresciuto. Ma le altre forze politiche preferiscono una tranquilla navigazione fino al 2023: un governo “balneare”, come usava dirsi un tempo, che consenta il disbrigo degli “affari elettorali”. Ma è davvero il caso di governi “balneari” in un momento in cui occorre gestire le risorse del Pnrr?
La soluzione razionale sarebbe quella di affidare il governo all’attuale Ministro dell’economia e delle finanze, Daniele Franco, già Ragioniere generale dello Stato e Direttore generale di Bankitalia. E uomo di fiducia di Draghi. Ma se Draghi al Colle fa ombra, per la sua competenza e il suo tratto (mite ma) decisionista, e appanna la politica, Franco a Palazzo Chigi completerebbe un quadro che i leader dei vari partiti leggerebbero come un commissariamento. Si griderebbe al rischio democratico: la politica (ancora una volta) si affida alla tecnica! Si alzerebbero alti lai davanti alla curvatura autoritaria della democrazia che, come nella repubblica platonica, si rimette ai “filosofi”, coloro cioè che, in quanto conoscono il “bene”, sono, perciò stesso, capaci di governare.
E però va detto che le chiavi della valigetta del Pnrr sono appese nella Cabina di regia, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri, e che presso il Ministero dell’economia e delle finanze siede il Servizio centrale per il Pnrr, chiamato a svolgere attività di monitoraggio e di rendicontazione del Piano e funzioni di interlocutore della Commissione europea per la sua concreta attuazione. Funzioni estremamente delicate che imporrebbero alle forze politiche senso di responsabilità, ancor più in un momento in cui non è in gioco “solo” la gestione delle risorse del Pnrr – la prima esperienza di mutualizzazione del debito europeo -, ma è anche in discussione la stessa architettura del Patto di stabilità e crescita, sospeso, com’è noto, fino al 2023 a causa della crisi economica indotta dalla pandemia. Di recente il 23 dicembre 2021 – Draghi e Macron hanno firmato insieme un intervento sul Financial Times per sostenere la possibilità di una modifica del patto di stabilità: senza tradire l’esigenza di controllo della spesa pubblica, il patto non deve però soffocare la crescita attraverso aggiustamenti di bilancio impraticabili, e non coerenti con la finalità di realizzare gli investimenti pubblici “green” e tutti gli altri obiettivi del Next Generation EU. Davanti ai cc.dd. Stati frugali, che hanno – a dir poco – arricciato il naso a fronte del massiccio impegno finanziario avviato con il Pnrr, un Paese come il nostro, che si trascina un debito pubblico enorme, dovrebbe riuscire a trovare nel Palazzo un consenso largo, necessario ad eleggere l’uomo che con il suo whatever it takes ha salvato i destini dell’euro e che con il prestigio guadagnato sul campo è al momento l’unico a poter dare valide “garanzie” alle cancellerie europee e al mondo economico-finanziario internazionale.
*Professore di Diritto amministrativo nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria
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