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«Friedrich: il genio e la natura»

C’è un quadro che più di ogni altro rappresenta la perfetta metafora del rapporto fra l’Homo sapiens e la Natura-Materia, tema estremamente attuale in questa fase storica in cui il genio umano si …

Pubblicato il: 25/01/2022 – 7:31
di Francesco Bevilacqua*
«Friedrich: il genio e la natura»

C’è un quadro che più di ogni altro rappresenta la perfetta metafora del rapporto fra l’Homo sapiens e la Natura-Materia, tema estremamente attuale in questa fase storica in cui il genio umano si misura contro un virus dagli effetti devastanti su vari fronti: dalla sanità alla politica, dalla scienza ai rapporti sociali. È il famoso “Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich (1774/1840), pittore tedesco. Il dipinto ritrae un uomo di spalle, elegantemente vestito – una mano in tasca, l’altra poggiata su un bastone da passeggio – che osserva un paesaggio inquietante di montagne costellate di nebbie. A due secoli di distanza, il quadro è modello replicato all’infinito nella fotografia paesaggistica perché rappresenta bene il dato percettivo che è parte integrante di ogni paesaggio. Per “paesaggio” s’intende, infatti, un determinato territorio, nei suoi aspetti naturali e culturali, così come viene percepito da osservatori.
Gli storici dell’arte (e non solo) si sono domandati quale sia il sentimento di quell’uomo (quindi di Friedrich) mentre osserva ciò che ha dinanzi a sé. Un sentimento che l’autore ha forse voluto criptare quando ha deciso di nasconderci il volto del protagonista. La maggior parte degli studiosi ritiene che l’uomo del quadro si sente attratto dal paesaggio, lo osserva con ammirazione e in parte anche con timore (ambivalenza tipica del “sublime” naturale, inteso come categoria estetica). Tuttavia, quell’uomo è ben conscio della superiorità dello spirito umano rispetto alla Natura-Materia, che, proprio perché grandiosa, incombente, superiore, in realtà è vista dal genio dell’uomo come una sfida.
Dal confronto con la natura selvaggia – spiega, ad esempio, il filosofo Remo Bodei in “Paesaggi sublimi” (Bompiani 2008) – l’individuo esce temprato dal cimento, al punto da “ricostruire un nuovo e rafforzato antropocentrismo” che “lo nomina sfidante e vincitore della natura nella lotta per la supremazia”. Francesco Tomatis, altro filosofo, in “Filosofia della Montagna” (Bompiani 2005), spiega a sua volta come “il sublime naturale per Immanuel Kant è esperienza della resistente superiorità morale, alla potenza della natura, della libertà dell’anima umana”. Ancor più chiaro, lo stesso Tomatis (che però, in quanto appassionato alpinista, prende le distanze dalla concezione espressa dal dipinto in questione), in una intervista-conversazione a tre, con il filosofo Massimo Cacciari e l’antropologo Annibale Salsa, apparsa nel 2006 sulla Rivista del Club Alpino Italiano: “Se Friedrich dovesse dipingere veramente me, credo non mi dipingerebbe in questa maniera sulla montagna, perché io non condivido la sua concezione della montagna e della natura in genere come sublime, come qualcosa che pur nella sua immensità, di fatto non fa che occasionare una riflessione, interna alla nostra coscienza morale, di essere comunque, in quanto uomini, superiori alla natura: per quanto non sia ancora [per l’epoca in cui fu eseguito il dipinto – n.d.r.] una superiorità tecnologica ma una superiorità morale”.
Dunque, perfino sul piano estetico, la Natura-Materia, per gran parte degli uomini (soprattutto per gli uomini di genio), non è altro che uno strumento per affermare la superiorità dell’Homo sapiens, che, grazie alla scienza ed alla tecnica, riesce a resisterle ed a conquistarla. Come accade, ad esempio, in certo alpinismo professionistico himalayano, in cui quel che conta di più è la dimostrazione che l’atleta può superare qualunque difficoltà, compresa quella che viene chiamata, sintomaticamente, dagli stessi alpinisti, “zona della morte” (oltre i 7000 metri di quota). Per cui attraversare la zona della morte, salire in vetta senza ossigeno, magari per una via impossibile e d’inverno e rimanere vivi è la più plastica dimostrazione dell’idea di stampo antropocentrico per cui nulla è precluso all’uomo, padrone della Natura-Materia.

Ed è anche quanto accade per una parte del mondo scientifico, che considera qualunque dimostrazione di forza della Natura – come nel caso del virus nostro contemporaneo – come un puro incidente di percorso, che è sempre – e sottolineo sempre – risolvibile dal genio dell’uomo. È solo così che l’Homo sapiens può giustificare qualunque nefandezza perpetrata dalla sua specie in danno della Natura-Materia (inquinamento, deforestazione, riscaldamento globale, consumo smodato delle risorse naturali, eccesso demografico etc.): il genio umano ha distrutto? Bene, possiamo continuare a farlo perché il genio umano risanerà e ricreerà! O, quando tutto dovesse mancare, colonizzerà altri mondi sparsi nell’universo, esattamente come ha fatto sulla Terra con le americhe, l’Africa, l’Australia.
“Viandante sul un mare di nebbia” è, dunque, il manifesto visivo dell’antropocentrismo che domina la storia dall’inizio della scienza e della tecnologia moderne, ossia dai primi dell’Ottocento. E non è un caso che il dipinto fu realizzato esattamente nel 1818, come fosse una profezia. La domanda che forse dovremmo cominciare a porci è se, di fronte alla reazione della Natura-Materia, scatenatasi negli ultimi anni anche attraverso le infezioni virali (alcune, come l’attuale, probabilmente causate da noi umani), il personaggio che campeggia nel dipinto di Friedrich sia ancora così in equilibrio, dritto, fiero, sicuro di sé.

*Avvocato e scrittore

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