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Il boss Femia e quei «50mila euro in banconote da 500 per aggiustare un processo»

Il collaboratore di giustizia racconta i suoi trascorsi con Pittelli. L’incontro con Mancuso e i voti per mandare l’avvocato in Parlamento

Pubblicato il: 26/01/2022 – 9:56
di Alessia Truzzolillo
Il boss Femia e quei «50mila euro in banconote da 500 per aggiustare un processo»

CATANZARO «Antonio Mancuso avendo saputo che Pittelli era mio difensore, si propose di intercedere lui stesso con l’avvocato Pittelli per favorire la mia scarcerazione. Mi diceva in particolare, che avrebbe provveduto lui a mandare un’imbasciata al Pittelli in quanto questi era stato “portato avanti” politicamente direttamente da lui, nel senso che Mancuso aveva favorito la raccolta di voti in favore del Pittelli candidato al Parlamento». Il 20 luglio 2017, il collaboratore di giustizia Nicola Femia parla con i magistrati della Dda di Catanzaro dei suoi rapporti con l’avvocato Giancarlo Pittelli, imputato nel processo Rinascita-Scott, con l’accusa, tra le altre, di concorso esterno in associazione mafiosa. Femia non è un pentito qualunque. Il boss, originario di Marina di Gioiosa Jonica, aveva sviluppato molti dei suoi business in Emilia Romagna, Lombardia e perfino San Marino. Femia ha saltato il fosso nel 2017 e il primo dei verbali che il Ros centrale ha redatto, ora agli atti del processo Rinascita-Scott, è di pochi mesi dopo la sua collaborazione. Il boss racconta di essersi rivolto anche lui a Pittelli, di essere stato convocato a Roma nel suo studio «e in quell’occasione mi invita a portargli 50.000 euro a titolo di acconto in quanto mi riferiva di aver trovato il modo per poter aggiustare con l’appello, la sentenza di primo grado». Pittelli avrebbe anche proposto a Femia «investimenti che lui poteva favorire in qualità di parlamentare nella zona costiera dello Ionio Soveratese e in cui lui stesso aveva interessi insieme ad altri imprenditori. Si tratta di fatti del 2011-2012». Secondo gli investigatori si tratta, verosimilmente, del «progetto imprenditoriale turistico che Giancarlo Pittelli aveva in animo di realizzare nell’area di Copanello di Stalettì, perfettamente riferibile all’area geografica indicata dal collaboratore».

«Cinquantamila euro consegnate in banconote da 500»

Per quanto riguarda il processo d’appello a Catanzaro, il collaboratore racconta di essere stato lui «a rappresentare all’avvocato Pittelli la mia disponibilità a versare somme di denaro per ottenere l’aggiustamento del processo», disponibilità che l’allora imputato si guardò bene dal comunicare all’altro suo avvocato. «Il Pittelli – continua Femia – fu disponibile a cercare a suo dire la persona che doveva essere il contatto che avrebbe potuto determinare a suo dire quantomeno l’assoluzione dall’accusa di associazione». Femia dice di essersi mostrato generoso da subito con l’avvocato, versandogli un primo acconto, per fondo spese legali, di 23mila euro in contanti, «in tal modo intendevo fargli capire che non avevo problemi di soldi per l’aggiustamento del processo». Dopo circa sette/otto mesi Femia viene arrestato nuovamente e, tramite suo figlio, fece versare altri 25mila euro per spese legali. Femia racconta che quando venne fissato il processo d’appello, nel 2010-2011, si venne a sapere la composizione del collegio giudicante e Pittelli avrebbe detto a Femia che «era in grado di aggiustare questo processo» tramite un suo amico di cui non fece il nome che doveva intervenire sul collegio, senza specificare da chi fosse composto, e che Femia doveva «solo portargli come acconto 50mila euro», cosa che il boss fece a distanza di poco tempo consegnando la somma in contanti in banconote da 500 euro «direttamente nelle sue mani».
Il processo si concluse con una condanna di poco inferiore rispetto al primo grado e l’imputato chiese spiegazioni. Pittelli promise che si sarebbe informato tramite il suo amico, dice Femia, «per capire cosa non aveva funzionato». Secondo una mera supposizione dell’avvocato, prosegue il collaboratore, il giorno della sentenza era stato visto «il procuratore Gratteri che all’epoca stava a Reggio Calabria, e che aveva fatto le indagini a carico di Femia». Gratteri era stato visto in compagnia del sostituto procuratore generale che avrebbe dovuto reggere l’accusa in appello, all’epoca il pg Facciolla, e «Pittelli ipotizzò che forse la presenza del dottore Gratteri sarebbe stata sfavorevole sulla mia posizione».
Femia racconta che non seppe più nulla delle 50mila euro, che non gli vennero restituite, ma non chiese spiegazioni perché non voleva pregiudizio su un altro processo a Catanzaro nel quale lo seguiva sempre Pittelli.

L’incontro con Antonio Mancuso e l’imbasciata a Pittelli

A ottobre 2020 Femia aggiunge particolari al suo narrato. E qui viene fuori la storia dell’incontro con Antonio Mancuso, esponente della famiglia di ‘ndrangheta di Limbadi. «In particolare mentre ero in custodia cautelare nel carcere di Spoleto, nel periodo tra il mese di dicembre 2009 e gennaio 2010, ho incontralo Antonio Mancuso che era allocato nella mia stessa cella assieme anche a suo nipote Domenico Scardamaglia; in quell’occasione Antonio Mancuso avendo saputo che Pittelli era mio difensore, si propose di intercedere lui stesso con l’avvocato Pittelli per favorire la mia scarcerazione», dice Femia. «Mi diceva in particolare, che avrebbe provveduto lui a mandare un’imbasciata al Pittelli in quanto questi era stato “portato avanti” politicamente direttamente da lui, nel senso che Mancuso aveva favorito la raccolta di voti in favore del Pittelli candidato al Parlamento; così Mancuso mi diceva che avrei dovuto soltanto provvedere a pagare quanto Pittelli avrebbe richiesto; infatti in questa fase attraverso mio figlio Nicolas ho consegnalo al Pittelli la somma di 25mila euro e subito dopo la mia scarcerazione avvenuta l’8 febbraio 2010 ho provveduto personalmente a consegnare l’ulteriore somma di 25mila euro direttamente nelle mani del Pittelli, in contanti. Voglio precisare che questa somma complessiva di 50mila euro si aggiunge alla somma di 25mila euro che aveva già consegnato a Pittelli all’atto della sua nomina come mio difensore, ed ancor prima di essere arrestalo e conoscere Antonio Mancuso. Sempre rispetto a tale vicenda voglio ancora precisare che il presidente del collegio del Tdl che ha deciso la mia scarcerazione era, se non erro, il giudice Petrini (in realtà le indagini hanno rivelato che Petrini non ha fatto parte del collegio di Riesame, ndr). Preciso che Antonio Mancuso nel periodo di co-detenzione cautelare venne, trasferito al carcere di Pisa per motivi sanitari, sebbene sapevo non necessitasse di particolari cure che richiedessero trattamenti in strutture diverse: Questo trasferimento fu agevolato sempre dall’avvocato Pittelli», dice Femia il quale poi precisa che Pittelli «si vantava di questo successo professionale, ma non sono in grado di dire se anche in questo caso fu avvicinato il magistrato».

«Pittelli “intrallazzato” con i magistrati»

Nel corso di un altro interrogatorio reso a marzo 2021, Nicola Femia racconta che sentì parlare «la prima volta di Pittelli da Giuseppe Anania di Cirò, in carcere a Catanzaro nel 1995, che aveva in quel tempo proprio Pittelli come legale. Mi parlò del predetto legale come una persona cui affidarsi per avere sentenze favorevoli, che era “intrallazzato” con i magistrati. Anche altri detenuti mi hanno parlato di Pittelli in questi termini, era un nome che circolava in carcere per le circostanze di cui vi ho appena riferito. Adesso che mi ricordo che ho sentito parlare di Pittelli anche prima della mia detenzione, sempre in questo senso».
Nell’interrogatorio di marzo scorso, a proposito della imbasciata che Antonio Mancuso aveva promesso di fare per Femia presso Pittelli, il collaboratore racconta: «il Pittelli mi fece intendere che avesse parlato con Antonio Mancuso, in particolare mi disse che mi riportava i suoi saluti e poi aggiunse espressamente “ti ha raccomandato Antonio”». (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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