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Gaetano Saffioti: «Vi racconto i miei “primi” vent’anni da uomo libero» – VIDEO

Intervista all’imprenditore che ha denunciato la ‘ndrangheta nel 2002. «Un terzo di vita come testimone di giustizia» e il primo incontro con la violenza mafiosa a otto anni. «Amo la Calabria, ma q…

Pubblicato il: 28/01/2022 – 7:04
di Francesco Donnici
Gaetano Saffioti: «Vi racconto i miei “primi” vent’anni da uomo libero» – VIDEO

PALMI Vent’anni e non sentirli. «Bisogna guardare sempre il lato positivo, sono vent’anni di libertà». Gaetano Saffioti attende sulla soglia degli uffici della sua azienda di Palmi con in mano l’inconfondibile sigaro. «Stavo per dirti di non venire» non perché sia diventato meno importante raccontare ancora una volta la sua storia a vent’anni di distanza dal 25 gennaio 2002, ma perché «su certi temi non sembra esserci più l’attenzione di un tempo».
All’ingresso rimane vigile l’occhio delle telecamere che monitora anche l’impianto per il calcestruzzo. All’interno, gli agenti della scorta. Su una delle pareti dell’ufficio, in alto, si nota un quadretto con un banco di pesci azzurri su sfondo giallo e un pesciolino rosso che nuota controcorrente. Chi conosce la storia di Gaetano Saffioti, imprenditore da una vita e testimone di giustizia da vent’anni, coglie subito la finezza biografica racchiusa in quell’immagine. Dalla sua denuncia scaturì l’operazione “Tallone d’Achille” che portò all’arresto di 48 tra esponenti di vertice e gregari di alcune tra le “famiglie” più potenti della provincia di Reggio Calabria in un periodo storico in cui di ‘ndrangheta non si soleva nemmeno parlare ad alta voce. Nel frattempo molte cose sono cambiate e molte altre sono rimaste uguali, come le certezze di chi, «un terzo di vita» dopo, continua a riconoscersi come «uomo libero, calabrese libero, imprenditore libero».

Dal 25 gennaio 2002, giorno della sua denuncia, sono passati vent’anni. Vent’anni di libertà, ma anche sotto sorveglianza.
«Sfatiamo subito un luogo comune: chi guarda dall’esterno una persona che vive sotto scorta pensa che sia prigioniera, ma per me non è così. Io sono più libero di tanta gente. La scorta è, semplicemente, un pianificarsi la giornata. È una vita condivisa, non una restrizione. La libertà non è in ciò che si fa, ma come lo si fa. È qualcosa di molto più ampio. Molta gente pensa di essere libera quando invece non lo è, la libertà la capisci quando ce l’hai veramente e io mi ritengo essere un uomo libero. Così anche per la solitudine: non è il numero delle persone che ti sta intorno, ma la qualità. Molta gente pensa più alla propria reputazione che alla propria coscienza e finisce per vivere di rimpianti. La vita è un sacrificio continuo, ma il sacrificio maggiore è vivere col rimorso. Vivere la vita è qualcosa di diverso da esistere».

Lei ha raccontato che il suo primo “incontro” con la ‘ndrangheta risale all’età di otto anni, mentre era in vacanza premio in una colonia estiva vicino Palmi.
«La cosa peggiore che mi sia mai capitata. Anche oggi ci sono tanti bambini che non possono esercitare il proprio “mestiere”. Non possono fare i bambini e vivere in un mondo di sogni. E quella è un’età che non torna. Oggi, ad esempio, potrei andare alle Maldive, ma non è la stessa cosa che andare a una colonia estiva, anche poco distante da casa, a otto anni. Quello era un momento della vita che non tornerà. Mi è stato tolto, oltre ad aver portato un po’ di rancore verso mio padre perché credevo mi avesse tolto quella esperienza quando invece voleva tutelarmi da un possibile rapimento come ritorsione nei suoi confronti. Oggi penso che ci siano ancora tanti padri ancora vincolati e tanti bambini che non possono fare i bambini. È un pensiero terrificante».

Suo padre venne a riprenderla dopo aver subito minacce. Quando scoprì la verità?
«Mio padre morì per un tumore e siccome la ‘ndrangheta non si faceva tanti problemi, continuò a chiedere il pizzo a mia madre, che mi raccontò la verità su quella vicenda. Mi raccontò anche di queste “famiglie” che pretendevano quella che ho rinominato “Ivam” (importa sul valore aggiunto mafioso, ndr) su tutto ciò che fai. La ‘ndrangheta mette le mani da tutte le parti e nel corso della vita è diventata una presenza costante. Quando ho cominciato a zappare la terra mi veniva detto dove potevo andare e dove no. Quando c’era da raccogliere le olive stessa cosa. Addirittura avevo una cava e non potevo prelevare il mio materiale perché dovevo comprarlo da loro. Allora ero libero? Oggi lo sono, non all’epoca».

Quando e come è scattato il pensiero di denunciare in un periodo in cui non era una pratica diffusa tra gli imprenditori calabresi?
«In quegli anni non si vedeva l’alternativa al racket e sembrava non ci fosse modo di uscirne fuori. Non c’era informazione, non c’era rapporto con le forze dell’ordine. Eravamo in un terreno inesplorato e bisognava agire autonomamente. Raccoglievo le prove, documentavo gli incontri avvenuti nel corso degli anni finché non ho sentito un magistrato (Roberto Pennisi, ndr) in televisione che si lamentava della mancanza di collaborazione degli imprenditori definendoci “codardi e collusi”. Lì mi scattò la molla. Quel magistrato all’epoca stava portando avanti il processo “Tirreno”, uno dei più grandi contro il clan dei Piromalli e io lo vedevo come il Falcone della Calabria. Così decisi di andarlo a trovare. Non è stato facile ma da lì iniziò la collaborazione. Mi volevano trasferire, cambiare identità, ma misi dei punti fermi. Dovevamo mandare il messaggio che chi denuncia non deve vedere stravolta la propria vita. Deve mantenere la stessa faccia, lo stesso telefono perché la vittoria più grande è quella di restare. Non per il senso di sfida, ma per dimostrare che la vita continua e addirittura migliora. Solo così possiamo dare degli esempi concreti. Se io avessi avuto un altro punto di riferimento forse avrei denunciato anche prima. Volevo essere d’esempio per dare agli altri una possibilità o quantomeno togliere loro gli alibi».

Saffioti consegnò alla procura i filmati fatti e la documentazione raccolta che dimostravano le estorsioni subite

Altro ”punto di rottura” fu il racket imposto durante la costruzione dei piazzali del porto di Gioia Tauro. Quanto è asfissiante il controllo della ‘ndrangheta nel settore in cui opera?
«La ‘ndrangheta, almeno nel settore di cui mi occupo, mette le mani da per tutto. Dalle forniture alla manodopera. Non è vero, come molti pensano, che vuole avere una piccola percentuale dell’appalto e finisce lì. Al porto di Gioia Tauro, poi, è stata scoperta la vera unitarietà della ‘ndrangheta. Per lavorare bisognava pagare a Palmi perché producevi, a Gioia perché passavi da lì e a Rosarno perché consegnavi. Tipo casello autostradale. Registrai un filmato dove c’erano tre rappresentanti di tre diversi clan che si spartivano la “torta”. Queste continue vessazioni più che i danni degli attentati subiti, tra mezzi bruciati e operai minacciati, mi fecero scattare. Quando ti guardi allo specchio ti chiedi: sono un uomo libero? Cosa insegnerò a mio figlio? Che per andare avanti bisogna genuflettersi? Come posso sperare che finisca il sistema ‘ndrangheta se per paura o interesse, pagando il pizzo, lo alimento?»

A queste domande si legarono anche le scelte forti di rimanere in Calabria e non accettare, laddove possibile, aiuti dallo Stato?
«Sono rimasto nel territorio d’origine per dare un esempio concreto e creare emulazione. Se ci fossero altri cinquanta, cento imprenditori che denunciano io non sarei più sotto scorta. Non potrebbero esserci cento scorte. La scorta è un costo. Io soffro perché non voglio essere un costo per lo Stato. Voglio essere semmai una risorsa attraverso il mio lavoro. Questo dev’essere lo spirito del testimone di giustizia, che non deve vivere di assistenzialismo perché non è un collaboratore di giustizia che scambia le sue dichiarazioni per dei benefici. Deve dare dei messaggi di positività sbugiardando le “facciate” dei protocolli di legalità e dei codici etici che rimangono puntualmente inapplicati».

Questo spunto riporta alla mente un suo sfogo di qualche anno fa, quando per far fronte all’emergenza successiva al terremoto di Amatrice offrì gratuitamente le macchine per il movimento terra, ma venne bloccato dal poter prestare la sua opera.
«Anche in quel caso volevo sbugiardare i protocolli di legalità e i codici etici dimostrando che non solo come imprenditore non ero tenuto in considerazione, ma che neanche offrendomi gratuitamente potevo lavorare. Le proposte fatte nel corso del tempo volevano penetrare il muro dell’emarginazione perché non tutti hanno la capacità di andare avanti. Volevo dimostrare che le gare sono truccate, che chi denuncia è emarginato. Non si vive solo di gloria o di onore, bisogna lavorare. Da qui le proposte fatte a diversi componenti politici, come quella di riservare almeno l’1% dei lavori pubblici a chi denuncia. Basterebbe che le varie associazioni di categoria ottemperassero ai protocolli, ma, nonostante gli appelli e la risonanza del messaggio, non si fa ancora».

La sua attività risentì di questa scelta? Cosa accadde dopo la denuncia?
«È stata l’apocalisse. Ma bisogna anche contestualizzare il periodo. Oggi chi denuncia ha un mondo aperto. Allora non ci furono fiaccolate ma scomparvero i preti, gli operai, gli imprenditori e se avevi conti attivi te li chiudevano. Nonostante fossi preparato a questo non è stato facile, ma da “testa dura” calabrese sapevo che da qualcuno bisognava partire e ho iniziato io sperando che altri seguissero questo esempio».

Nel tempo le cose sono andate migliorando. Uno spunto, in tal senso, si può trarre guardando ai mondiali di calcio “Qatar 2022“…
«In Qatar abbiamo completato tre padiglioni all’Expo di Dubai e tre stadi che ospiteranno i prossimi mondiali (“Al Janoub”, “Al Thumama” e “Al Bayat”, ndr). Mentre qui non riesco a vincere una gara nemmeno per una strada di campagna lì non ne facciamo perché siamo saturi per almeno altri dieci anni. C’è qualcosa che non torna e il mio rammarico è di far crescere altri Paesi e non il mio. Però devo anche dare sfogo alle mie capacità di creare lavoro e il piccolo calabrese che conquista mercati internazionali dev’essere qualcosa di positivo. Sono innamorato della Calabria altrimenti non sarei qua, ma il lavoro per adesso è solo fuori, almeno per me».

Stadio “Al Janoub”, ospiterà alcune delle partite dei mondiali di calcio “Qatar 2022”

Quando dice “qui non riesco a vincere una gara” intende solo in Calabria o anche nel resto d’Italia?
«L’Italia è tutta contaminata. Avevo cantieri anche in Lombardia, Emilia Romagna, Valle d’Aosta, ma anche in Europa, dalla Spagna alla Bulgaria e all’Olanda. Quasi da tutte le parti c’è la loro presenza, soprattutto in Europa. Ho trovato spazi solo nei paesi mediorientali».

Non sembra un quadro rassicurante, soprattutto in previsione dell’arrivo dei finanziamenti per il Pnrr. Quanto è alto il rischio che vengano intercettati dal mercato illecito?
«Il rischio non esiste perché è certa la contaminazione. Mentre oggi pensiamo a quale possa essere il rischio, loro sono già entrati. Loro sono avanti nei tempi. Quando ci fu l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria cercai di entrare anche per una questione di prestigio. Avvenne a cavallo delle denunce. Prima era un “porto di mare” da me, tutti chiedevano preventivi. Poi di colpo sono spariti. Parlai con un dirigente, che mi rispose chiaramente: “L’autostrada è già stata suddivisa”. Addirittura mi disse che i lotti ancora nemmeno in gara erano già assegnati. Mi definì, lotto per lotto, quali imprese avrebbero fatto i lavori e mi anticipò: “Si parla molto del Ponte sullo stretto di Messina, ma non si farà mai perché malauguratamente dovessimo farlo ci rimetteremmo l’osso del collo”. Mi disse che aveva il potere di farmi entrare in uno di questi lotti “però si romperebbero degli equilibri”. Rifiutai».

Esiste una “ricetta” vera per “rompere gli equilibri” e uscire dal sistema o la ‘ndrangheta è un fenomeno ormai insuperabile?
«Dev’essere chiaro che con la sola repressione la storia non finisce perché, scontata la pena, usciranno fuori e ricominceranno. E se non ci sono loro c’è chi li sostituisce. Il cambiamento ci sarà solo quando il popolo lo vorrà. Ogni singolo, se la pensa nello stesso modo, può stravolgere il mondo. Se tu gli volti le spalle, se non condividi certe cose allora qualcosa cambia. Molta gente non comprende ancora che non schierandosi di fatto avalla il sistema ‘ndranghetista. Si deve capire che chi tace acconsente e chi non reagisce in qualche modo favorisce. È il popolo calabrese che si deve ribellare non brandendo i forconi, ma cambiando mentalità, modo di comportarsi. Scegliere di essere persone veramente libere, senza essere egoisti ma pensando di lasciare un futuro migliore a chi verrà dopo di noi. Quando diciamo che “voi giovani dovete cambiare le cose” in qualche modo ci autodenunciamo perché se fossimo dei buoni esempi dovremmo dire “voi giovani ci dovete seguire”. Altrimenti succederà che parleremo ancora di ‘ndrangheta per altri cento anni. Questo cerco di tramandare dimostrando che si può fare, cosa più importante da ciò che si deve fare. Il fine è talmente nobile che qualsiasi prezzo val bene la libertà. “Ad Augusta per Angusta”».

L’imprenditore e testimone di giustizia durante uno degli incontri tenuti in questi anni coi ragazzi di scuole e associazioni (da Radio Popolare)

Per evitare la solita domanda “se tornasse indietro rifarebbe la stessa scelta?”, guardando al futuro più o meno prossimo vale la pena chiederle: oggi vede qualche speranza di rinascita per la Calabria?
«La speranza è una parola che dobbiamo cancellare. Bisogna vivere di certezze. Ci si aggrappa alla speranza come un qualcosa che non dipende da noi mentre invece dobbiamo essere certi del nostro futuro, impegnandoci. Riporto una frase detta anche in sede processuale al magistrato che mi fece questa stessa domanda: “Nel momento in cui c’era da scegliere avevo chiara una cosa: qualsiasi scelta avessi fatto, essa non sarebbe rimasta immune da una consistente quota di dolore e da un disagio sufficientemente profondo per dare un fondo di amaro anche al più solare dei sorrisi e allo strenuo esercizio per una salvifica ironia”. Cosa vuol dire? Se non avessi deciso di denunciare avrei vissuto in quel sistema. Fare denunce dà sempre un po’ di amarezza al tuo sorriso perché comunque scopri di non trovarti in quale Paese totalmente libero che vorresti vedere. C’è stata qualche rinuncia, hai perso qualche amico o qualche parente che non ha condiviso questa scelta. Però non lo rifarei una volta, ma dieci miliardi di volte perché quella che molti definiscono la scelta sbagliata, è stata la scelta giusta, che io consiglio a tutti di fare. È vero che non sappiamo dove o quando moriremo, ma possiamo scegliere come morire, oggi. Se da uomini liberi o da schiavi, ovvero da servi». (redazione@corrierecal.it)

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