ROMA «Devono ritenersi compartecipi del danno cagionato ulteriori soggetti non evocati in giudizio quali il collegio sindacale, inopinatamente tardivo nel rilevare la rischiosità dell’azione intrapresa, i nuovi amministratori che, nel procedere all’immediato disinvestimento, hanno acconsentito alla corresponsione di 685.111,34 a titolo di commissione d’uscita, a fronte di 478.988,27 euro che sarebbero stati erogati qualora i fondi fossero stati disinvestiti al 31 dicembre 2016». Così la sentenza d’appello della Corte dei Conti sul caro del danno erariale di oltre 1,5 milioni di euro direttamente derivante dal repentino smobilizzo delle risorse precedentemente investite, deliberato senza tenere in alcuna considerazione risultanze e documenti inviati alla Società in house della Regione Calabria dalla Banca Widiba. Un “buco” nelle casse della finanziaria regionale che «non può essere considerato diretta conseguenza delle scelte operate dall’ex Presidente Luca Mannarino, già illegittimamente rimosso dall’allora Governatore Mario Oliverio prima del citato disinvestimento e per il quale l’ex Presidente della Regione Calabria è a processo per abuso d’ufficio». Così una nota diffusa dallo stesso Mannarino.
I magistrati contabili hanno alleggerito di molto la posizione del manager, condannato a pagare 150mila euro (a fronte del milione e mezzo disposto dal giudizio di primo grado). Assolti, invece gli ex consiglieri di amministrazione Marcello Martino e Pio Turano. «Sebbene la scelta a monte – si legge nella nota (l’investimento deliberato ad agosto 2015 dall’ex Presidente Mannarino con l’obiettivo di ricostituire i conti correnti della Finanziaria regionale) – non fosse in linea con i vincoli derivanti dagli obiettivi individuati dalle disposizioni di settore, non necessariamente la scelta conseguenziale (ovvero quella attribuita al subentrato Presidente Salvino) deve essere orientata a cagionare un nocumento erariale, piuttosto che ad evitarlo e/o limitarlo».
Posizione notevolmente ridimensionata per Mannarino, dunque, nonostante la Corte dei conti ne sottolinei, in alcuni passaggi, la «superficialità». Riportiamo dalla sentenza di Appello: «Dal compendio degli atti in giudizio emerge chiaramente una condotta altamente superficiale del Mannarino e negligentemente non orientata alla corretta valutazione della rispondenza fra le direttive impartite dal socio mediante gli impegni convenzionalmente stabiliti e le finalità da conseguire mediante la gestione della società, pur tuttavia non sembra emergere, nel comportamento tenuto la volontà e coscienza di cagionare un danno alla società. La scelta effettuata, infatti, ha comportato l’accettazione di un rischio non previsto in relazione alle esigenze legate alla gestione dei fondi in questione, ma non necessariamente ed aprioristicamente volto alla causazione di un danno erariale. Trattasi, pertanto, di una grave violazione dei propri doveri di diligenza che, nella causazione del cennato danno, rilevano in misura parziaria, secondo il noto principio che orienta la responsabilità amministrativo contabile, in ragione, tanto, più di diversi elementi che avrebbero dovuto imporre all’amministratore un contegno più prudente e ponderato».
È questa la parte in cui i giudici spiegano che «devono ritenersi compartecipi del danno cagionato ulteriori soggetti non evocati in giudizio quali il collegio sindacale, inopinatamente tardivo nel rilevare la rischiosità dell’azione intrapresa, i nuovi amministratori che, nel procedere all’immediato disinvestimento, hanno acconsentito alla corresponsione di € 685.111,34 a titolo di commissione d’uscita, a fronte di € 478.988,27 che sarebbero stati erogati qualora i fondi – secondo il prospetto presentato in corso di causa – fossero stati disinvestiti al 31 dicembre 2016». Questa differenza è ciò di cui è chiamato a rispondere Mannarino «tenuto conto, come già detto, dell’apporto causale dei soggetti sopra indicati nonché di quello del Martino e del Turano, anch’essi corresponsabili, in ragione del ruolo rivestito e degli obblighi che ne derivano, ai quali, tuttavia, alla luce degli atti in giudizio, si ritiene di non poter ascrivere, al pari del Mannarino, una condotta gravemente colposa».
La lettura diffusa da Mannarino spiega che non «necessariamente dalla causazione di un fatto/atto contra legem deve derivare necessariamente ed automaticamente un danno erariale (come correttamente evidenziato dalla difesa di Mannarino). Infatti – si legge a pagina 15 delle sentenza d’appello – era ben noto ai nuovi amministratori (Salvino), in quanto ben edotti dalla società Widiba, che il disinvestimento immediato avrebbe cagionato una perdita immediata sul capitale investito; la scelta effettuata dall’ex Presidente Mannarino ha comportato l’accettazione di un rischio non previsto in relazione alle esigenze legate alla gestione dei fondi in questione, ma non necessariamente ed aprioristicamente volto alla causazione di un danno erariale».
La nota segnala inoltre che «per la revoca di Luca Mannarino dalla carica di Presidente del CDA dell’ente in house della Regione Calabria, l’ex Governatore Mario Oliverio viene rinviato a giudizio dal Tribunale di Catanzaro per violazione degli articoli 97 e 54 della Costituzione (dovere di imparzialità dell’amministrazione e dovere di adempiere con disciplina ed onore l’esercizio di funzioni pubbliche); della legge 241 del 1990 (obbligo di adottare provvedimenti amministrativi motivati sulla base dell’istruttoria svolta) e dello Statuto di Fincalabra nella parte in cui stabilisce che i consiglieri rimangono in carica quanto il consiglio di cui sono entrati a far parte (non essendo ammesse scadenze scaglionate nel tempo dei componenti del CdA). Adottando quel provvedimento in modo intenzionale, pur dopo il venir meno (per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale) del sistema dello spoil system che aveva determinato il primo provvedimento di destituzione di Mannarino, l’ex Presidente della Regione Calabria – si legge nel decreto dispositivo del giudizio – procurava a Mannarino (che si è costituito anche parte civile) un danno ingiusto, consistente nelle retribuzioni non percepite per il periodo in cui vi avrebbe avuto diritto, oltre al danno curriculare; pregiudizio da considerarsi ingiusto poiché la rimozione era attuata col deliberato scopo di perseguire quelle finalità privatistiche che collocano l’esercizio della funzione in violazione dei criteri di imparzialità e di buon andamento dell’attività amministrativa, nella specie con la specifica volontà di rimuovere in soggetto sgradito».
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