ROMA «La mafia uccide sempre meno, è sempre meno visibile, fa meno impressione, e se non ne parlano i media il problema non esiste». Eppure i clan «stanno drogando l’economia legale, fanno saltare le regole del libero mercato, e non è poco». Nicola Gratteri ribadisce l’allarme già lanciato più volte nel recente passato. Lo fa a di Martedì, trasmissione de La7 condotta da Giovanni Floris. E ricorda ancora che i clan «si stanno attrezzando per mettere le mani sui soldi del Pnrr». Il cartello mostrato dal conduttore illustra la cifra: i soldi in arrivo in Italia ammontano a 191,5 miliardi di euro. Gratteri evidenzia subito quale sia il settore più esposto: «Le mafie sono dagli anni 70 leader nel mondo dell’edilizia pubblica e privata. Abbiamo già visto con il superbonus del 110% come è possibile realizzare le truffe». Una possibilità elevata che si lega a un «rischio bassissimo»: quello «che si celebri un processo o che i mafiosi vengano condannati a una pena non conveniente».
Affari lucrosi e a basso rischio. Da un lato c’è la questione strutturale dei denari in arrivo, dall’altra un’assenza di reazione da parte dello Stato che il procuratore capo di Catanzaro addebita a un «concorso di colpe». Al solito, il magistrato non si tira indietro quando ci sono responsabilità da individuare: quelle principali sono di «politica, governi e Parlamento che non creano norme proporzionali alla realtà criminale». Esempio: «una truffa per milioni di euro può portare a una condanna a 2-3 anni di carcere: in questi termini il gioco vale la candela. Cosa sono 2-3 anni rispetto ai 20 che si rischiano per importare chili di cocaina?». La conclusione è semplice quanto disarmante: «Fino a quando sarà conveniente delinquere si faranno questi reati. Il rischio è bassissimo, la pena è minima».
Gratteri sa che nei gangli del rapporto mafia-politica si nascondono le insidie peggiori. Che hanno radici storiche lontane: «Le mafie hanno sempre cercato accordi con uomini delle istituzioni, fin dalla seconda metà dell’800». Un rapporto biunivoco: era l’aristocrazia, ai tempi, «ad assoldare a Reggio Calabria i picciotti per condizionare il voto. Si è sempre pensato di usare la picciotteria, dando soldi per prestazione d’opera: tu vessi i candidati per condizionare il voto. Però in quel modo si è data una legittimazione alla criminalità organizzata. E anche oggi il trend si ripete».
Capita soprattutto a ridosso delle scadenze elettorali: «I politici nelle ultime 48 ore sono pronti a fare patti con il diavolo». Rispetto a questo rapporto inquinato non ci sono preferenze, per così dire, ideologiche. «Le mafie – dice ancora Gratteri – non sono di destra né di sinistra, puntano sul cavallo vincente. Chi fa le liste sa quanti voti possono portare, e spesso si punta su dei prestanome».
La concretizzazione di questo scambio perverso non lascia scampo. «Le mafie non fanno sconti: se prendi i voti devi poi dare conto soprattutto nella pubblica amministrazione». E questo è più vero quanto «più piccolo è l’ente; è facile aggredirlo, perché il forte decentramento porta al controllo delle mafie». (redazione@corrierecal.it)
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