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dopo la sentenza

Il ricorso in appello: da Lucano «colpevole ad ogni costo» all’associazione a delinquere «creativa»

Impugnata la sentenza di condanna del tribunale di Locri nel primo grado del processo “Xenia”. «Giudici hanno interpretato in maniera difforme le intercettazioni»

Pubblicato il: 15/02/2022 – 15:20
di Francesco Donnici
Il ricorso in appello: da Lucano «colpevole ad ogni costo» all’associazione a delinquere «creativa»

REGGIO CALABRIA “Una sentenza non sproporzionata, ma ingiusta” hanno affermato quanti si sono riuniti lo scorso 1 ottobre prima e il 6-7 novembre poi a Riace, dopo la pronuncia del tribunale di Locri nei confronti dei 27 imputati del processo “Xenia”. Un pensiero riaffermato nell’inciso che la decisione della Corte presieduta da giudice Fulvio Accurso (a latere Cristina Foti e Rosario Sobbrio) di condannare a 13 anni e 2 mesi di reclusione a fronte del computo di oltre 20 capi d’imputazione il principale imputato, Domenico Lucano, sarebbe da ritenersi «in toto censurabile». Così, almeno, nella ricostruzione difensiva degli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia che, come annunciato fin dagli istanti successivi alla lettura delle oltre 900 pagine di “motivazioni”, hanno deciso di impugnare quel provvedimento davanti ai giudici d’Appello. Nel rileggere il ricorso torna in mente un’immagine rubata lo scorso novembre. L’avvocato di Lucano si trova, forse in maniera casuale, davanti a uno striscione con la scritta “salvare vite non è reato”: «Il giudice di prime cure» si sarebbe occupato «di trovare “ad ogni costo” il colpevole nella persona di Domenico Lucano» componendo una sentenza che per la maggior parte riprende «il compendio intercettivo» offerto dagli inquirenti «tuttavia, dandone un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato e contrastante con gli altri inconfutabili elementi di prova». Colpiscono, in tal senso, alcuni passaggi rimarcati dagli avvocati secondo cui sarebbero riportate alcune affermazioni dell’allora (all’epoca dei fatti contestati) sindaco del così detto “borgo dell’accoglienza” invero «mai pronunciate».
Ne verrebbe fuori «una motivazione puramente apparente, che non assolve alla funzione di esplicitare le ragioni della decisione» oltre che “eccessiva” stante anche la presunta «inutilizzabilità delle intercettazioni per i reati che non sono autonomamente intercettabili» a fronte della così detta sentenza “Cavallo” della Suprema Corte a Sezioni Unite.

Andrea Daqua, avvocato di Mimmo Lucano alla manifestazione del 6 novembre

L’abuso d’ufficio e la riconversione in truffa aggravata «lesiva del diritto di difesa»

Uno per uno vengono passati in rassegna i diversi capi d’imputazione che compongono la condanna. A cominciare dall’abuso d’ufficio contestato dalla procura di Locri e riconvertito dal giudicante in truffa aggravata a fronte di alcune presunte operazioni fraudolente – come il mancato aggiornamento della banca dati Sprar addossato a Lucano sulla base di «argomentazioni apodittiche» – sui progetti di accoglienza un tempo attivi nel borgo.
Un’imputazione «indeterminata», resa tale dall’assenza di alcuni elementi – come l’elenco dei migranti non aventi diritto presenti a Riace – che di converso starebbe aggrappata a «un atto di fede su quanto riferito dall’Accusa e non già  sul risultato di un accertamento». Di fatto, la difesa «ancora oggi non è in grado di sapere se, quanti e quali siano gli immigrati che sarebbero stati abusivamente trattenuti nelle strutture di accoglienza». Ma Daqua e Pisapia contestano anche una presunta violazione delle norme nazionali e internazionali in materia di “diritto di difesa” data dalla «riqualificazione» dell’imputazione in termini peggiorativi per l’imputato rispetto alla quale non era stato possibile difendersi in giudizio. Una riqualificazione che la stessa Corte avrebbe «scongiurato» sulla base di alcune affermazioni riprese dall’udienza del 16 ottobre 2019.
Il risultato, a fronte della richiesta di 7 anni e 11 mesi avanzata dalla procura e computata sulla “concussione” come reato con pena più alta, si è tradotto in una sentenza che ha quasi raddoppiato la pena calcolata sulla base di 2 abusi d’ufficio, 9 truffe, 4 peculati e 3 falsi.

Il Collegio del Tribunale di Locri, processo “Xenia”. Il giudice Fulvio Accurso legge il dispositivo della sentenza

«Lucano non ha agito con finalità di procurare a sé o altri un vantaggio patrimoniale»

«Dov’è lo scambio politico? – si domandano gli avvocati dell’ex sindaco di Riace – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento “omissivo” che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema di integrazione?» Secondo gli avvocati, «è inconfutabile» il fatto che Lucano, né per lui né per le associazioni prestatrici dei servizi di accoglienza, abbia voluto illecitamente arricchirsi come confermato durante il dibattimento anche da uno dei principali testimoni dell’accusa. All’udienza del 24 settembre 2019, il tenente colonnello Nicola Sportelli della Guardia di finanza rispondeva alla Corte che «se vogliamo vedere un ingiusto, diciamo un profitto, per quanto riguarda da un punto di vista economico, togliamolo per Lucano, non perché lo dico io, ma perché lo diceva al telefono lui». La stessa accusa nella requisitoria, nella parte sostenuta dal pm Michele Permumian, aveva parzialmente “adattato” il costrutto accusatorio parlando di «movente politico». Anche per questo e sulla base di alcune conversazioni richiamate, la difesa riconosce la ricostruzione che qualifica la condanna «del tutto fantasiosa».
«Lucano – si legge nel ricorso – appare nella motivazione del tribunale come una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio per i fatti che gli vengono attribuiti». La difesa, dal canto suo, richiamando le stesse intercettazioni lo descrive come «angosciato» delle problematiche che investivano i progetti per l’accoglienza e il “modello” costruito con fatica nel periodo passato. «Le somme contestate non sono state utilizzate con la finalità di arricchire sé stessi o comunque le associazioni, ma destinate esclusivamente all’espletamento dei servizi previsti dalla confusionaria normativa di settore», vero motivo, nella ricostruzione degli avvocati, delle problematiche relative ai progetti (come ad esempio il mancato aggiornamento della banca dati Sprar).

Con l’associazione a delinquere i giudici «raggiungono il massimo livello di creatività»

Lucano durante il processo di primo grado

L’impalcatura accusatoria e molte delle fattispecie che compongono la condanna, fanno notare Daqua e Pisapia, già in sede cautelare erano in parte cadute a fronte «dell’insussistenza indiziaria relativamente alla maggior parte delle ipotesi di reato» come evidenziato anche dal gip. Non a caso, Lucano, ad ottobre 2018, si era visto applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari sulla base delle “sole” contestazioni dei presunti illeciti in materia di appalti pubblici (riguardo l’affidamento diretto alle cooperative locali del servizio di raccolta differenziata) e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «L’insussistenza dei reati fine in contestazione si riverbera negativamente sulla possibilità di configurare il delitto di associazione a delinquere», rimarcano i legali. Nell’istruttoria sarebbe emersa «l’assoluta assenza di qualsivoglia forma di vincolo associativo» o «programma criminoso» tanto che la Corte, nel rispolverare quella specifica contestazione «appare raggiungere il massimo livello di creatività», nelle parole degli avvocati. “Se quella è un’associazione a delinquere – aveva affermato durante un’assemblea pubblica lo stesso Lucano – allora anche prefettura di Reggio Calabria e Viminale ne facevano parte, perché finché gli faceva comodo per loro ero ‘San Lucano'”.
Il prossimo venerdì 18 febbraio si terrà a Riace una conferenza stampa per andare a fondo delle ragioni oggetto del ricorso in Appello. Poi si entrerà nel secondo grado di un processo che, nelle parole pronunciate dal compianto Enrico Fierro nell’estate 2021, avrebbe dovuto incaricarsi “di restituire equilibrio ad una vicenda” che stava risentendo della “pesantezza politica usata dall’accusa nell’inchiesta”. (redazione@corrierecal.it)

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